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Gucci e la spallata delle due sfilate divide la moda. Virtuale o da toccare?

Carlo Capasa: «Ognuno decida liberamente ma giusto separare uomo e donna, specie per l’industria italiana». Londra e New York firmano un documento a favore

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Sfilare solo due volte l’anno. Oppure a ridosso dell’arrivo nei negozi della collezioni. O spostare le date delle fashion week di qualche settimana. O lasciare tutto com’è. O accettare che ognuno segua i propri tempi. Il mondo della moda è nel pieno di un terremoto «concettuale» (oltre a tutto il resto) e si interroga sull’assetto dopo l’emergenza, al di là di fashion week virtuali che hanno un senso ora (sono già super organizzate: prima Londra, poi Parigi e infine Milano), ma lasciano scettici parecchi perché la moda ha bisogno anche di essere «toccata». Dunque per il dopo che verrà sono nati gruppi (attorno a Business of Fashion uno e Dries van Noten l’altro) e prese di posizione (Giorgio Armani), conversazioni (Gucci) e lettere (quella del British Fashion Council e del Cdfa).

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Un’immagine dello show di Gucci a febbraio a Milano (Afp)

Sui ritmi tutti d’accordo

Un solo punto in comune: rivedere i ritmi e gli impegni. Fare meno e meglio. Un mea culpa globale contro un sistema che produceva troppo creando un circolo vizioso di capi a getto continuo, arrivando — per molti — a otto show (fra collezioni, pre, cruise e alta moda) o comunque sei o sette senza couture. Poi drop e special edition. Ogni mese il nuovo da vendere e il «vecchio» — si fa per dire — da «eliminare», spesso con i saldi, l’altro tasto dolente: vanno calmierati. Già, il meccanismo della fast fashion applicato al lusso che la pandemia ha prima immobilizzato e ora messo in crisi: meno trenta per cento le prime stime, ma ancora le definitive devono arrivare. Stanchezza e paura da una parte e voglia, tanta, di ripartire con il piede giusto: in ballo c’è un giro d’affari dei prodotti di lusso che – secondo le stime appena fatte da Altagamma – nel 2025 dovrebbe passare dagli attuali 280 a 330 miliardi.

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Dries van Noten

La Spallata di Gucci

L’ultima, cronologicamente parlando, «spallata» al sistema l’ha data alla l’ultima settimana di maggio 2020 Alessandro Michele, il creativo di Gucci che con i suoi «Appunti dal silenzio» (riflessioni nei «giorni di confinamento» scritte a mo’ di lettere e poi pubblicate su Instagram) è arrivato all’epilogo: «Nel mio domani abbandonerò quindi il rito stanco delle stagionalità e degli show per riappropriarmi di una nuova scansione del tempo, più aderente al mio bisogno espressivo. Ci incontreremo solo due volte l’anno, per condividere i capitoli di una nuova storia». E subito il primo annuncio: «A settembre (2020 e se mai ci saranno le sfilate ndr) non saremo pronti. Presenteremo a ottobre». Un’uscita dal calendario ufficiale della settimana milanese? Non proprio, per ora è così. Michele fa appello a un sistema «aperto», ma ben conscio che si debba dialogare e trovare comunque un’intesa. Si prende la libertà di decidere con, sulle spalle, 17 mila dipendenti. Stesse riflessioni in Saint Laurent: Anthony Vaccarello ha già detto che uscirà dal calendario di Parigi per sfilare quando potrà. Libertà, è vero, concessa anche dalle istituzione, esclusa la Francia che ha sempre non intervenire sui contenuti ma aggiornare su leggi e disposizioni.

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Anthony Vaccarello saluta il pubblico dopo lo show Saint Laurent a Parigi (Afo)

Due show l’anno

La libera scelta di due soli show (uomo e donna insieme, per intenderci) trova d’accordo Carlo Capasa, presidente della Camera Nazionale Moda Italiana ma come decisione dei singoli brand («già da anni alcuni lo fanno, Gucci stesso»), ma non istituzionalmente: «Specie per noi italiani che abbiamo un’organizzazione perfetta con i momenti importanti a gennaio e giugno con il Pitti e Milano. Forse si potrebbe riunire gli eventi in una sola città, questo sì». Più propensi a sintetizzare quattro in due, Londra e New York, cioè Caroline Rush e Tom Ford, ma è anche vero che le loro collezioni maschili non hanno il peso di quelle italiane: «I tempi delle settimane della moda sono qualcosa di cui discutiamo da anni — dice Caroline Rush, ceo del British fashion Council — e restiamo aperti alla conversazione». «Insieme, consigliamo vivamente ai designer di concentrarsi su non più di due collezioni principali all’anno», scrivono poi nella lettera congiunta Londra-New York. Concludendo: «Un ritmo più lento offre anche l’opportunità di ridurre i livelli di stress dei progettisti e dei loro team, che a loro volta avranno un effetto positivo sul benessere generale del settore».

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Caroline Rush, ceo del British Fashion Council

Impatto ambientale

E nella «reimpostazione» chiedono anche attenzione all’impatto ambientale: meno date significherebbe meno viaggi e inquinamento. Ma su questo è d’accordo anche Capasa: «Non sono le settimane il problema: ma tutti gli altri eventi, dalle pre alle cruise alle edizioni speciali che portano in giro per il mondo gli addetti ai lavori praticamente ogni mese. Stressando non solo economicamente ma anche creativamente i sistema, oltreché al danno, appunto ambientale». Il gruppo di Bof, The Business of Fashion, (una sessantina di firmatari) appoggia i due appuntamenti ma sopratutto gli show più a ridosso delle vendite in boutique, una sorta di see now buy now, già però fallimentare: «Ucciderebbe del tutto la creatività» è sicuro Capasa. Il presidente nicchia anche sullo spostare le attuali date un po’ più in là, un mese, come alcuni chiedono: «L’industria italiana, e qui si produce il 41 per cento contro l’8 in Francia, non potrebbe garantire i tempi di produzione per le consegne in stagione. Giusto invece posticipare gli arrivi in boutique come ha detto Armani».

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Ennio Capasa, presidente della Camera della Moda di Milano

I capotti? In inverno

Già, la stagionalità: altro appello. Lanciato con forza da Giorgio Armani, dopo il primo mese: «Trovo assurdo che in pieno inverno in boutique — ha scritto lo stilista in una lettera — ci siano i vestiti di lino e in estate i cappotti di alpaca, per il semplice motivo che il desiderio d’acquisto va soddisfatto nell’immediato. Chi acquista per mettere in armadio aspettando la stagione giusta? Nessuno o pochi, penso io. Ma questa, spinta dai department store, è diventata la mentalità dominante. Sbagliata, da cambiare. Questa crisi è una meravigliosa opportunità per rallentare e riallineare tutto; per disegnare un orizzonte più vero».

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Giorgio Armani