Garattini: «In Italia sui vaccini si invoca la libertà di scelta perché c’è una visione distorta della scienza»
Lo scienziato si racconta, tra riflessioni sulla pandemia e sulle colpe dell’Oms
by Roberta ScorraneseNon tutti sanno che Mario Negri, l’uomo ha dato il nome al famoso centro di ricerche farmacologiche di Milano, era un gioielliere. «Proprietario di uno storico negozio in via Monte Napoleone, ma anche un imprenditore pieno di visione, tanto da immaginare di trasportare la produzione di gioielli a livello industriale, per renderli accessibili a un pubblico più ampio», dice Silvio Garattini, lo scienziato che il centro lo ha fondato nel 1960 con l’aiuto, appunto, di Negri. Garattini compirà 92 anni il prossimo novembre e tutti i giorni continua a venire qui, nel suo studio, in questa «oasi della scienza» che si trova nella Bovisa, periferia nord ovest.
Professore, alle pareti vedo dipinti di ispirazione seicentesca.
«Se nell’arte io copio un quadro commetto plagio. Se nella scienza replico un esperimento sto facendo la cosa giusta. C’è una differenza di fondo tra arte e scienza, anche se in Italia la scuola tende ad assimilare la conoscenza scientifica a quella della storia dell’arte o della storia letteraria. Un grave errore».
Spieghi meglio.
«Un’impostazione distorta fa sì che a scuola non si insegni la metodologia scientifica o che se ne faccia poca. Al massimo si insegna la storia scientifica, un po’ come si insegna la storia della letteratura e non la letteratura stessa. Però la scienza è rigorosa, ha la sua metodologia che permette di stabilire che cosa fa bene e che cosa fa male, in un processo continuo di auto-correzione. Sa qual è la conseguenza?»
Quale?
«Che anche nella scienza, così come nella letteratura, si finisce per convincersi che è la propria opinione quella che conta».
Anche in questioni delicatissime come i vaccini. Lei ne accenna ne «Il guerriero gentile», libro scritto con Roberta Villa.
«Se io dico che Dante non ha scritto la Commedia vengo preso per pazzo. Se dico però che i vaccini fanno venire l’autismo mi sto appellando alla libertà d’espressione. Una visione distorta che rifiuta un cardine fondamentale per la crescita di un Paese: la scienza non produce solo vantaggi, ma anche conoscenza. Sapere. Le medicine, le scoperte vengono assimilate sempre e soltanto a qualcosa di utile nell’immediato ma non è così. Il telefonino non mi serve solo per collegarmi con qualcuno che è distante, ma anche a capire il mondo e dove sta andando».
Soprattutto dove sta andando, direi. La pandemia non ha dimostrato che non eravamo pronti e che non pensiamo molto al futuro?
«Esattamente. Siamo bravissimi ad affrontare il contingente, oppure a dare risposte ai problemi di ieri per raccogliere consenso oggi. Ma non progettiamo il futuro. Il simbolo è l’ospedale nella Fiera di Milano: siamo stati eccezionali nel tirarlo su in poco tempo, ma il punto è che avrebbe già dovuto essere lì. E da tanto».
Quanti errori ha commesso l’Oms nella gestione di questa pandemia?
«Errori, ma anche cose giuste. Ha sbagliato prima di tutto a non fare subito una ispezione in Cina, visto che questo virus circolava già a dicembre; ha sbagliato nella lentezza nel dichiarare lo stato di pandemia. Ma, vivaddio, ha bloccato il braccio della sperimentazione della clorochina: si è visto che fa più male che bene».
Alla fine degli anni Novanta lei era nel Consiglio superiore di sanità quando esplose il caso Di Bella. Pensa che oggi sarebbe replicabile una cosa simile?
«Assolutamente sì. Si ricordi che abbiamo avuto, anni dopo, il caso Stamina. E più di recente i no vax, che non sono affatto scomparsi. Fino a che da noi per le questioni scientifiche ci si affiderà alla libertà d’espressione senza dare il giusto peso alla metodologia, di casi simili ne vedremo ancora eccome. Fu su pressione dell’opinione pubblica che il Parlamento votò a favore della sperimentazione del presunto trattamento e la ministra Rosy Bindi si trovò costretta a intraprenderla, col risultato che, come previsto, nei pazienti sottoposti alla cosiddetta “cura Di Bella”, non si trovò nessun vantaggio rispetto a quelli che avevano ricevuto le cure ordinarie: tutti i pazienti affidati a quel trattamento purtroppo morirono».
Lei ha vissuto in prima persona anche la stagione di Seveso e della diossina.
«Era il 1976. Qui al “Mario Negri” ci trovammo in prima linea: scoprimmo tracce di diossina nel fegato dei conigli e l’allora assessore alla sanità mi affidò il compito più gravoso, cioé convincere i cittadini che l’area nella quale vivevano era pericolosa e che dovevano lasciare le proprie case. Vissi sulla mia pelle la difficoltà di dire la verità, anche se dolorosa, alle persone. E perciò comprendo quelli che pochi mesi fa si sono trovati nella stessa situazione».
C’è tanta, tantissima diffidenza nei confronti del mondo scientifico.
«Da una parte ci sono quelli che credono che dietro ad ogni verità scientifica ci siano chissà quali interessi economici e la questione dei vaccini è esemplare. A questi io rispondo con franchezza: il vaccino toglie miliardi dalle tasche delle case farmaceutiche, perché evita una grande quantità di farmaci da prendere per le cure. L’altro fronte è più sottile. Per una logica perversa oggi si chiede alla scienza di avere una risposta pronta subito e su tutto e se non ce l’ha non vale nulla. La scienza non è una fabbrica di risposte pronte o di verità confezionate: è dubbio, è errore, è correzione, è approvazione da parte di altri scienziati, è contestazione da parte di altri scienziati. Ecco perché, soprattutto nella scienza, è meglio non avere idoli o forti personalismi».
Troppa tv nuoce?
«In America già negli anni Cinquanta insegnavano come uno scienziato deve comportarsi in televisione e io l’ho imparato lì. Come ci si comporta? Innanzitutto mai arrabbiarsi con l’interlocutore. Secondo, non fingere mai, anche nelle verità più scomode. E, soprattutto, non andarci spesso: non è tanto il rischio della sovraesposizione quanto, più banalmente, si rischia di cadere in contraddizione».
Lo insegnavano già negli anni Cinquanta?
«Sì e sa che cosa avveniva più o meno in quel periodo qui in Italia? Che gli scienziati criticavano me perché assieme a Indro Montanelli avevo dato vita alla pagina della scienza. Ho sempre creduto in una buona divulgazione, e non penso che l’arroccarsi dietro un “tanto gli altri non capiscono” sia un bene».
Capire certi meccanismi scientifici non è facile, forse si preferiscono verità più comode.
«Io faccio sempre l’esempio di causa ed effetto. Lo sa che la maggior parte delle persone non sa che cosa sia davvero questo rapporto? Le racconto un aneddoto. Anni fa si vide che le acque dell’Adriatico diventavano lattescenti. Gli ambientalisti insorsero, additando le porcherie che ogni anno arrivano dal fiume Po. Ora, noi sappiamo che il Po porta porcherie ma quella volta la lattescenza dell’Adriatico non derivava da questo, tanto è vero che il fenomeno sparì e addirittura qualcuno portò la prova che questo effetto stato notato anche nell’antica Roma. Ecco, la scienza serve a capire quali effetti scaturiscono da certe cause e quali no».
Professore, perché ci siamo dimenticati dell’Aids?
«Per le stesse ragioni per cui ci stiamo trascurando un altro gravissimo problema come la resistenza agli antibiotici, che ogni anno fa diecimila morti solo in Italia. Il fumo di vittime ne fa 72mila, e non mi sembra che ci sia una grande attenzione nemmeno a questo».
Il fumo è una sua antica battaglia. Per questo lei litigò anche con Miriam Mafai, fumatrice, in pubblico.
«Sì ma poi lei si ravvide e iniziò un bel rapporto. Litigai ancora più spesso con Gianfranco Funari: lui fumava in trasmissione e quando gli chiesi di smettere lui ribattè: “No, piuttosto lei si presenti in tv con camicia e cravatta”».
Il suo famoso dolcevita bianco. Ci sveli l’origine di questa scelta.
«Semplicemente perché evita di dover stirare le camicie».
Lei era molto amico di Paolo Grassi, che cosa vi legava?
«Perché più o meno nello stesso periodo lui faceva crescere il Piccolo Teatro e io il “Mario Negri”. Condividevamo le stesse difficoltà e le stesse speranze in una Milano che cresceva».
Lei è stato catechista, è cresciuto negli oratori di Bergamo, spesso ha riflettuto sul rapporto tra scienza e fede. Qual è la sua posizione, oggi?
«Credo che sia sciocco dire che Dio non esiste: così come non abbiamo le prove della sua esistenza, non ne abbiamo della sua inesistenza. Tutto qui».
Di lei si sa che tifa Atalanta e che sa fare il pollo disossato — la sua ricetta è finita addirittura ne «La Cucina Italiana». Qualcosa d’altro che non sappiamo?
«E chi lo sa? Forse non lo so nemmeno io».
E il motto di una vita, qual è?
«Cerco sempre di lavorare come se il mondo non potesse fare a meno di me ma con la precisa consapevolezza che senza di me il mondo sta benissimo».
Una cosa di cui si è pentito?
«Molte, ma c’è un errore in particolare che ho commesso nella mia vita: non ho capito in tempo quanto sia importante il pensiero femminile per la società».
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