Il rimorso dell’America
per aver perduto la Cina

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Caro Aldo,
Trump accusa la Cina e i laboratori di Wuhan di aver dato il via alla propagazione del virus: incidentalmente o volutamente come esperimento. Al di là delle prove è evidente che sta bluffando, facendo per l’ennesima volta il gradasso per solleticare lo zoccolo duro degli elettori «tifosi».
Roberto Bellia Vermezzo con Zelo

Caro Roberto,
Fin dall’inizio la presidenza Trump è stata improntata a un rapporto fortemente critico e competitivo con la Cina; il «virus di Wuhan» — come lo chiama lui —, che ha vanificato tre anni di forte crescita economica, ha ovviamente inasprito l’atteggiamento del presidente. Ma la linea di Trump, per quanto eccessiva come il personaggio, non è nata nello spazio di un mattino. In realtà, tutta la politica asiatica degli Stati Uniti negli ultimi settant’anni si può leggere come una serie di contromosse dopo lo smacco (se non l’errore) di aver perduto la Cina.
Dopo il Secondo conflitto mondiale, l’America non poteva combattere una nuova guerra per fermare il comunismo in Cina. Il generale Marshall tentò invano di imporre un governo in cui fossero rappresentati sia i nazionalisti sia i comunisti. Il 1948 fu un anno elettorale: il presidente Truman fece una campagna straordinaria e vinse in rimonta; ma certo non poteva aprire un altro fronte. Fatto sta che nell’aprile 1949 Mao entrava a Nanchino e a fine anno l’uomo degli americani, Chiang Kai-shek, con l’aiuto della settima flotta Usa riparava a Taiwan.
Gli americani hanno combattuto due guerre, in Corea e in Vietnam, per non cedere altro terreno ai rossi. Salvarono la Corea del Sud (ma quando il generale MacArthur, che gli americani consideravano il vero vincitore della Seconda guerra mondiale, propose di usare l’atomica contro i cinesi, Truman lo cacciò). Abbandonarono il Vietnam anche perché nel frattempo Nixon aveva fatto la pace con la Cina, allargando la spaccatura nel blocco comunista, il che non rendeva più necessario sostenere un conflitto così dispendioso.
Da allora la Russia, pur restando un Paese importante, ha perso la sua dimensione imperiale. E la Cina (nominalmente comunista) è diventata concorrenziale con gli Usa prima sul piano industriale, poi su quello digitale. Il lungo confronto che segnerà le nostre vite è appena cominciato; e la pandemia non ne rappresenta che un episodio. Da cui alla lunga la Cina uscirà rafforzata; anche perché l’America di Trump sembra rinunciare al suo tradizionale ruolo di leadership in Occidente.

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Storia

«Sessant’anni, precaria storica, farò il concorso»

Ho più di 60 anni, insegno alle medie, precaria da 20, di cui 15 consecutivi Sono un’insegnante madrelingua francese: provo a far pensare direttamente i ragazzi in francese, chiedo uno sforzo sulla pronuncia, per evitare che i ragazzi si esprimano nelle altre lingue come se queste avessero la stessa musica dell’italiano. Oltre a ciò, solo con l’esperienza ho imparato a far filtrare temi apparentemente noiosi e a ottenere il rispetto e l’attenzione degli alunni. Sono qualità che si acquistano sul campo e dopo anni. Non lavorando mai nella stessa scuola per più di due anni, ho ricevuto numerose recensioni di diversi colleghi. Conosco il mio valore, so che il livello a cui preparo i miei alunni è ottimo. Non temo confronti con gli insegnanti «di ruolo». Per tutti questi motivi, trovo offensivo chi sostiene che i precari storici sono degli approfittatori e che il concorso è «una questione di merito». Comunque venga svolto, ho molte più possibilità di non superarlo io, che non faccio un esame da 35 anni, rispetto a chi ha studiato fino a ieri. Ma le qualità di un docente non sono misurabili scientificamente, né valutabili da 1 a 10 con un test. Si trascura il fattore umano. Ovviamente parteciperò al concorso: mi piacerebbe ricevere una retribuzione pari a quella dei miei colleghi e avere più contributi, perché l’età della pensione si avvicina anche per me.
B.B.

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