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Cardinale Zuppi: «Non sappiamo unirci neanche di fronte alla massima tragedia del nostro tempo»

L’arcivescovo di Bologna: «Prevalgono protagonismi, furbizie e polemiche astiose. Abbiamo sfruttato tutte le risorse, ambientali e umane, per edificare una società fragile e vorace»

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Conosco Matteo Zuppi da molto tempo. Ha operato a lungo nella parrocchia di Trastevere e per poco tempo a Torre Angela, periferia est di Roma. La sua missione è proseguita per anni nel Vicariato di Roma. Ora è vescovo di Bologna e cardinale nominato da Papa Francesco. È sempre stato un pastore, vicino alla sofferenza e al bisogno. Mi sembra non consideri che fede e dubbio siano nemici. Per questo sentivo il bisogno di ascoltare i suoi pensieri sul tempo inedito della vita che stiamo attraversando.

Eminenza Zuppi, c’è, in questo tempo inedito, un interrogativo spirituale che si è posto alla sua coscienza con maggiore drammaticità?
«Il confronto col male. È qualcosa di molto fisico e molto concreto, di decisivo. E lo capisci perché l’acqua è arrivata fino alla gola, perché è cambiata la vita, la città è diventata un deserto, perché hai avuto persone che si sono ammalate, hai visto le immagini di Bergamo, perché hai capito che, come ha detto Papa Francesco, era sbagliato credersi sani in un mondo malato. La lotta contro il male diventa quasi fisica. È come quando uno parla a favore della pace, contro la guerra ma poi, quando la violenza scoppia e ti raggiunge, capisci che quello che dicevi o pensavi non era esercitazione volontaristica, puramente morale, ma una lotta di fondo, decisiva per la vita tua e per la vita degli altri. Direi che questo è stato il grande esercizio spirituale. L’altro è stato la riflessione sull’interdipendenza dei comportamenti, sulla natura di relazione dei gesti tra noi. Se io sono uno sconsiderato e metto in pericolo qualcuno, o se non aiuto qualcuno e scappo, comprometto il suo destino, il mio e quello degli altri. È come se questa pandemia abbia legato gli umani in una “comunità di destino”. Privato e pubblico sono tornati in stretta relazione. Cosa che, in fondo, quando eravamo un po’ più giovani, avevamo addirittura l’ambizione di far coincidere. Il mondo si è improvvisamente interconnesso, da monadi isolate siamo diventate cellule interdipendenti di un organismo unico. L’uomo planetario, fatto di sofferenza, relazione, speranza. Non è soltanto un problema di igiene, è anche una dimensione molto spirituale. E come tutte le cose spirituali deve essere molto concreta e fondata sulla relazione con gli altri. Lo spirituale è l’anima delle nostre relazioni e si nutre di esse, dà senso, linfa al nostro vivere sociale».

Il virus genera paura e bisogno degli altri, insieme. Come le sembra abbia fatto irruzione nelle coscienze il tema dell’altro da sé?
«L’assenza ci fa capire il valore della presenza. Il fatto che l’assenza sia stata fisica, perché dovevamo mantenere la distanza dal prossimo, ci ha fatto comprendere la decisività del nostro rapporto con l’altro. L’uomo, come disse Thomas Merton, non è un’isola. Non può essere un’isola. La solitudine può essere, nel nostro tempo, una malattia. Individuale e sociale. Gli anziani che non potevamo andare a trovare, i figli che hanno visto i loro padri e le loro madri andare via in solitudine... Tutto questo, per fortuna, ci scandalizza, ci fa male, non ci appartiene, non ci assomiglia. Quelle bare nella notte di Bergamo sono state un pugno nello stomaco. La solitudine, l’idea che gli anziani siano “scartati”, è uno scandalo che si è rivelato nella sua brutalità. E non lo possiamo accettare. Ma ciò che di più importante abbiamo imparato in questa crisi è che noi dobbiamo isolare il virus, non l’altro da noi. Qualche volta si fanno coincidere le due cose e questo è suicida, perché siamo tutti “altri” di fronte alla minaccia della vita e ci vuole poco a diventare anche noi il nemico. Così l’isolamento, paradossalmente, può aiutarci a vincere la distanza, se capiamo che il vero isolamento è dal virus, non dall’altro».

Chi le è mancato di più in questo periodo?
«La comunità, nel senso dell’incontro con le persone. Celebrare l’eucarestia senza le persone è stato un digiuno, un digiuno molto faticoso. Quello che io vivo, ciò per cui vivo, è la comunità, la relazione con gli altri. L’assenza di questa fisicità è ciò che mi è mancato di più».

Dio e Auschwitz. Dio e una pandemia che uccide, specie i più fragili. Le epidemie evocano il carattere millenaristico della punizione divina. Ma quanto conta la responsabilità umana, il libero arbitrio degli uomini?
«Questa è sempre la grande domanda. Per Auschwitz ricordiamo le parole di Elie Wiesel. C’è un bambino impiccato dai nazisti che sta morendo. Una voce dice “Ma dov’è Dio adesso?”. La risposta: “Eccolo, è lì, appeso a quella forca”. Su Auschwitz la storia ha parlato chiaro. Non si può attribuire a Dio la responsabilità degli umani. Anche sul virus, un po’ di responsabilità ce la dobbiamo prendere. Dobbiamo chiederci “dove è finito l’uomo”. Abbiamo sfruttato tutte le risorse, ambientali e umane, per edificare una società fragile e vorace. E non sappiamo unirci neanche di fronte alla più grande tragedia del nostro tempo. Soltanto insieme si può pensare di affrontare una sfida come questa. Ma anche in questi mesi, ovunque, hanno prevalso i protagonismi, le furbizie, le polemiche astiose, il piccolo cabotaggio. Costruiamo i muri, ma ovviamente i muri non ci difendono e il virus invisibile dilaga. Ci convince a costruire muri e poi li irride. Questa crisi ci ha messo di nuovo, come succede in tempi di guerra, a confronto con la morte. È un confronto alto e necessario, per la vita. È la coscienza di un limite naturale, chi non lo affronta vive male, vive in maniera sconsiderata. Questo ci aiuta a stringerci di più, a ritrovare parole più vere, ad essere più essenziali. E credo anche a dare una prospettiva spirituale. La nostra fede ci parla di un Dio che si è preso il virus della vita, perché, nascendo, ha accettato la vulnerabilità. È un Dio, non dimentichiamolo, crocefisso, che ci aiuta a vedere e sopportare le sofferenze. È un Dio che aiuta ad affrontare il male. Capisco, sento che non è un estraneo ma che è qui, vicino a me. Conosce il dolore. Viene spesso usata una frase: “Io non ci credo, ma mi manca tantissimo”. È una formulazione bellissima, che esprime l’umiltà del dubbio, il desiderio di ricerca. Il virus ci ha forse aiutato anche a porci le domande vere della vita. E della vita oltre la vita».

Si può parlare di un’apocalisse a proposito della pandemia?
«Apocalisse è il confronto a cui il Vangelo stesso ci invita. Ci dice: “Io non ti garantisco la cuccagna. La vita ti aiuta a vivere, a non scappare, a non passare dall’incoscienza al terrore. Ma ad essere uomini veri”. Quando il cielo cadrà sulla terra e la natura si trasformerà, quando piomberanno le guerre, le pestilenze — usa proprio questi termini — l’invito di Gesù è: “Alza lo sguardo”. È l’invito alla speranza, al non farsi prendere dal terrore. E poi l’altro grande invito: cambia, cambia il tuo atteggiamento. E questa è una cosa molto seria, anche per chi non crede. Quello che è successo ci deve far cambiare. Dobbiamo provare a cambiare e fare tesoro di quello che è successo per rendere meno malato il mondo, per mutare noi nelle nostre relazioni con gli altri, per cercare di capire quello che conta davvero. Cambia quegli atteggiamenti, perché tu puoi essere più forte dell’Apocalisse. L’Apocalisse non vince. Per questo bisogna “alzare lo sguardo”. Dobbiamo cambiare. Ma avremo il coraggio di farlo? C’è chi dice che non saremo più come prima, saremo peggiori. Io ho speranza negli umani, invece».

L’obiettivo che ci dobbiamo proporre è di tornare alla vita precedente?
«Tornare alla vita precedente, cambiando noi stessi e ricominciando a cambiare il mondo. Certamente tante cose saranno diverse e di questo dobbiamo farne un tesoro di crescita e di consapevolezza, ma la virtù che più ci servirà, per il tempo che sta arrivando, è l’umiltà nel cercare il futuro. Umiltà, perché questa pandemia che ha messo in ginocchio il mondo è stata una grande umiliazione per tutti. La generazione dei nostri genitori l’Apocalisse l’aveva nella testa e nel cuore. Ma quegli italiani si misero a costruire con umiltà le case per i loro figli e il benessere per i figli dei loro figli. Penso che questa umiltà ci servirà per capire che noi stiamo bene solo se stanno bene gli altri. Che ogni ingiustizia produce dolore collettivo. Eravamo fragili e arroganti, prima. Di fatto, perché è da arroganti vedere e non fare niente, accorgersi e rimandare. Eravamo sconsiderati, come i narcisisti e gli arroganti. Come chi pensa di potercela fare sempre, comunque. La normalità che dobbiamo presto conquistare è quella di una vita cambiata».

Tornare a una nuova vita, dunque. Il concetto di distanziamento sociale non è un ossimoro?
«Lo è senz’altro. Il rischio, se lo viviamo non per combattere il virus ma per pensare di farcela da soli o per combattere gli altri, è che aumenti ulteriormente l’ingiustizia. Oggi crescono le differenze, le diseguaglianze e questo pesa sulla vita e la sicurezza di ciascuno. Quando ci si ritrova nell’apocalisse, si capisce quanto tempo si è perso e quante occasioni si sono mancate. Ora non si può rimandare più. I nostri genitori vedevano le macerie fisiche e quelle morali. Capirono che bisognava ripartire e cambiare, che non si poteva perdere tempo».

Un vescovo pastore come lei ha paura dell’impoverimento di questo Paese? Delle persone che perdono il lavoro, dei negozi che chiudono?
«Sono calcolati in milioni gli italiani sulla soglia della povertà. E, siccome la soglia è sottilissima, è molto facile precipitare. C’è bisogno di lavoro e di meno precarietà della vita. Dobbiamo avere tanta attenzione e fare esattamente il contrario dell’isolamento, cioè la solidarietà. Molti segnali positivi ci sono: quello che hanno fatto i medici, gli infermieri, il pranzo preparato per chi non ha da mangiare... In diverse parrocchie i cittadini hanno donato beni alimentari: “Qui lascia chi ha e prende chi ha bisogno”. Non è assistenzialismo, è solidarietà».

Il principale cambiamento non è proprio ripartire dagli ultimi, dopo questa crisi?
«Non c’è dubbio. Conviene sempre ripartire dagli ultimi. Perché sono loro che pagano sempre le conseguenze più gravi. Se sappiamo aiutare gli ultimi, staranno meglio anche i primi. Un uragano, un’alluvione, una pandemia colpiscono indiscriminatamente tutti, ma lasciano segni differenti, dal punto di vista sociale. Bisogna alleviare il dolore. Non con il cerotto dell’assistenzialismo a pioggia ma con il vaccino del lavoro, che dona sicurezza e serenità. La pandemia ha agito come una radiografia che ha mostrato i punti di frattura della nostra casa comune. Bisogna curarla. Presto e nel modo giusto».

Come sono stati gli italiani? C’è il rischio che la responsabilità mostrata, per effetto della situazione sociale, possa trasformarsi in rabbia, in odio?
«Se le risposte tardano, la disillusione cresce. L’idea che, finita l’emergenza, ognuno resterà solo con le proprie difficoltà è esattamente quello che dobbiamo evitare. Altrimenti può crescere il senso di rabbia. C’era già prima, non dimentichiamolo. De Rita l’anno scorso parlava del rancore per il lutto non elaborato del benessere non ricevuto. Figuriamoci oggi, che abbiamo tutti enormi difficoltà. E l’altro rischio è riprendere come se niente fosse, cercare di ritornare quelli di sempre».

A me spaventano quasi più le persone che ora fanno fatica ad uscire di casa, di quelle animate da un bisogno di relazione...
«La bellezza della domenica passata era vedere le persone che si ritrovavano. Poi, certo, c’è la dissennatezza, voler pensare che non ci siano più problemi, che non si debba stare più attenti. Ma non mi spaventa il bisogno di socialità, semmai il suo contrario. Che l’isolamento ci possa convincere di poter fare a meno degli altri. Che l’isolamento diventi una patologia, come è. Finora è stato un modo per proteggerci, ma ora dobbiamo proteggerci dall’isolamento».

Falcone e Borsellino avevano idee politiche distanti, forse opposte. Eppure hanno lavorato insieme, vissuto insieme le loro battaglie per la legalità, hanno sofferto insieme, sono morti, si può dire, insieme. Perché in Italia di fronte a un’emergenza, non si pratica il dialogo, nel rispetto dei ruoli, in nome dell’interesse nazionale?
«Quei due uomini avevano qualcosa che li univa profondamente: il senso della lealtà, del bene comune, della giustizia. Avevano sensibilità molto diverse ma si ritrovavano a lavorare insieme e a combattere uniti contro i poteri criminali. Io posso avere idee diverse da te, ma abbiamo un nemico comune da sconfiggere, in quel caso un virus invisibile e letale come la mafia. Il personalismo, l’idea dell’incasso strumentale immeditato, del tornaconto personale e non la cura per la casa comune, per il bene comune, per le istituzioni, indebolisce tutti. È l’idea del bene comune che noi dobbiamo ritrovare, non c’è dubbio».