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Plácido Domingo: «Sopravvissuto al virus, il “Va’, pensiero” il mio canto di speranza»

A fine agosto, all’Arena di Verona, il recital del celebre tenore spagnolo. «La melodia di Verdi: una preghiera piena di malinconia per coinvolgere tutti»

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«Grazie a Dio sono sopravvissuto al virus». Plácido Domingo si concede quel respiro a pieni polmoni tanto atteso. Il grande artista spagnolo, 80 anni il prossimo 21 gennaio, ha vissuto il calvario del Coronavirus, dai primi sintomi al ricovero in ospedale. E ne è uscito guarito.
Come ricorda quelle settimane terribili?
«Nel momento in cui ho saputo di avere il virus ho pensato anche al peggio. Spazio e tempo sono infiniti quando aspetti di riabbracciare i tuoi cari lontani. Ma essere fermi ti costringe a riflettere, durante i giorni della malattia e della convalescenza ho iniziato a vedere la vita in modo nuovo, a non dare nulla per scontato, a restituire il giusto peso a ogni cosa».
Che pensieri rivolge ai troppi che non ce l’hanno fatta?
«In ogni Paese si piangono migliaia di morti, anche nella mia Spagna. Andarsene in solitudine, senza aver accanto nessuno dei propri cari, è l’aspetto più disumano di questo virus. E c’è lo strazio di chi resta, di un addio negato».
Qualche giorno fa la tv ha mandato in onda l’«Otello» che con lei e e Muti aveva aperto la stagione della Scala nel 2001. Le Torri gemelle erano cadute da poco…
«L’11 settembre ero in volo da Los Angeles a New York proprio durante l’attentato. L’inimmaginabile era accaduto. Con le Torri gemelle sono crollate le nostre certezze, ovunque fossimo eravamo tutti più vulnerabili. Le immagini apocalittiche, le vittime innocenti, il vuoto spaventoso di Ground Zero… L’11 settembre è stata una coltellata fulminea al cuore del mondo. Questa pandemia invece lo sta soffocando lentamente, come una nebbia invisibile toglie l’aria ai malati e spegne le nostre vite».
Teatri chiusi, riaperture difficili. Come vede il futuro?
«Quello che prima davamo per scontato non c’è più e ci manca terribilmente. Il virus ha stravolto intere stagioni teatrali costate tanto lavoro e io, come tutti i colleghi, ho visto cancellato un impegno dopo l’altro. Ma sono certo, l’opera tornerà. E entrare in un teatro sarà ancora più emozionante. Prima però dobbiamo attraversare il tunnel della pandemia. Ci sono dei compromessi necessari per poter tornare in teatro in sicurezza. Se Verdi fosse a Milano in questi giorni bui, voglio immaginare che avrebbe accettato di sacrificare un po’ della sua musica pur di farla arrivare al cuore della gente e dar la forza per ripartire. Quindi, in questo periodo sono favorevole che si ripensi all’opera con tagli di durata e limitazioni sceniche».
A fine agosto sarà all’Arena di Verona. Sempre che arrivi la deroga sul numero dei posti. Mille sono troppo pochi per riaprire sui 14 mila che contiene l’anfiteatro.
«Il pensiero di tornare nella mia amata Arena mi riempie di gioia. Un’Arena trasformata per proteggerci dal contagio, tutti distanziati e al tempo stesso tutti uniti, pubblico, coro, orchestra, artisti, in un grande abbraccio. Per me che ho avuto la fortuna di vivere lì 50 anni di serate magiche, tornare in questo momento storico sarà un’emozione profonda, diversa da tutte le altre. Perché alla felicità di fare musica si unirà il grande rispetto per chi ha lottato, sofferto e per chi non c’è più».
Con quale brano pensa di iniziare il suo recital?
«Con la melodia più celebre e evocativa dell’Italia nel mondo, il Va’, pensiero del “Nabucco”. Perfetta per coinvolgere tutti in un’invocazione piena di malinconia ma anche di speranza».
Quest’anno ha dovuto affrontare anche le accuse di molestie. Perché prima ha negato e poi si è detto dispiaciuto assumendosene la piena responsabilità?
«Perché rispetto chiunque abbia manifestato rimostranze nei miei confronti. Se ho creato disagi non era mia intenzione e me ne rammarico. Ma la mia dichiarazione di scuse di febbraio è stata estrapolata da un documento più articolato, redatto con il sindacato dei musicisti statunitensi. Così le mie parole fuori dal loro contesto sono state interpretate come un’esplicita ammissione di colpa, mentre ho sempre sostenuto di non aver mai abusato di nessuno, né di aver interferito con le carriere altrui. E il risultato dell’inchiesta interna dell’Opera di Los Angeles lo ha confermato».
Tornando all’arte e alla cultura, riusciranno a sopravvivere?
«Ci sono delle priorità. La prima è il diritto alla vita e alla salute per tutti. Poi ci sono gli effetti economici devastanti, le tantissime persone che hanno perso il lavoro e non riescono ad arrivare a fine mese. La cultura però ci ha sempre aiutato a superare i momenti peggiori. Spero che i governi se ne ricordino, perché il benessere di un essere umano non può essere completo se si esclude la sua dimensione più profonda, che si intreccia con l’arte».
La prima cosa che vorrebbe fare appena ce lo consentiranno?
«Poter pregare e cantare in solitudine nella chiesetta di San Salvador in Guetaria, nei Paesi Baschi. Le sue mura hanno sentito tante volte l’organo suonato da mio nonno e la voce di mia mamma cantare melodie antiche. In quel Paese ci sono le mie radici, lì mi sono avvicinato da bambino per la prima volta alla musica. Questo il mio sogno. Il mio augurio che la vita ritorni in un mondo libero dal virus e dalla sofferenza».