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Gianni Agnelli (al volante) con Valletta, Pirelli e Bianchi (1957)

Vittorio Valletta, torinese dimenticato

Il dirigente Fiat che fece rinascere Mirafiori, voleva che ogni italiano potesse comprare un’automobile. Torino non ha una via, una piazza, un largo, una strada che porti il suo nome. Ci sarebbe un ospedale, che nessuno però chiama così

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Nella primavera del 1946, alla vigilia del referendum da cui sarebbe nata la Repubblica italiana, la commissione economica del ministero per la Costituente convocò i capitani d’azienda, per ascoltare la loro visione dello sviluppo del Paese. Angelo Costa, presidente di Confindustria, disse che le grandi unità produttive erano «innaturali» per l’Italia. Secondo Pasquale Gallo, commissario dell’Alfa Romeo, l’Italia era «destinata a diventare un Paese artigiano». Gaetano Marzotto valutò che «la nostra industria» si fosse «troppo allargata». Poi davanti alla commissione si sedette Vittorio Valletta. Era appena uscito dall’epurazione — Giorgio Amendola aveva annunciato in fabbrica la sua condanna a morte — ed era tornato da pochi giorni alla guida della Fiat. Spiegò che non intendeva limitarsi a «riparare il buco nel tetto e mettere i vetri nuovi alle finestre».

Voleva portare a Mirafiori la tecnologia americana e far sì che ogni italiano potesse comprare un’automobile; a cominciare dagli operai torinesi, «ottimi, magnifici e bravi». Una testimonianza che torna utilissima in questi tempi, in cui sarebbe già gran cosa riparare il buco nel tetto e mettere i vetri alle finestre, visto lo stato in cui versano le periferie delle nostre città; ma occorre soprattutto salvare e rilanciare l’industria e il lavoro. Purtroppo oggi Vittorio Valletta è del tutto dimenticato. Torino non ha una via, una piazza, un largo, una strada che porti il suo nome. Ci sarebbe un ospedale, che nessuno però chiama così.

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Gianni Agnelli con Vittorio Valletta

Questa lacuna non può essere casuale. Oggi non riconosco la Torino in cui mi sono formato, dove ho vissuto gli ultimi quindici anni del secolo scorso. Oggi Torino non sa più chi è. Non voglio mancare di rispetto a nessuno; ma credo che non esista al mondo una città dall’identità così incerta e spappolata come la Torino di oggi. Intendiamoci: Torino non è mai stata così bella. Finalmente anche gli altri italiani e gli stranieri si sono accorti che la città è meravigliosa: il fiume, la collina, le montagne sullo sfondo, il centro barocco, le piazze, i viali, i portici, la Mole, i musei, il Valentino, il liberty, i nuovi grattacieli, la Crocetta, Superga… Eppure, nonostante il giusto orgoglio civico, in questi anni Torino e il Piemonte hanno lasciato che tutto quanto di coraggioso hanno fatto i nostri padri venisse denigrato e massacrato.

Il Risorgimento, un’epopea straordinaria — il re e Cavour, i soldati di Goito e di San Martino, gli studenti e i volontari che andarono alla guerra contro il più forte esercito d’Europa — viene raccontato in mezza Italia come una guerra di conquista e di predazione; secondo i neoborbonici, che dominano incontrastati sulla rete, avevano ragione i briganti e appunto i Borbone, festa farina e forca, la dinastia più reazionaria d’Europa. La Resistenza, un’altra pagina di storia di cui possiamo andare orgogliosi, e che ha avuto in Torino la sua capitale, viene capovolta: come se avessero torto i partigiani e ragione i «ragazzi di Salò». In realtà, nella Resistenza piemontese c’erano militari, religiosi, carabinieri e giovani di ogni fede politica, che si batterono con coraggio contro gli invasori tedeschi e il fascismo di Salò. Chi conosce oggi i nomi degli eroi fucilati al Martinetto? C’è qualcuno, tra i torinesi che possiamo incontrare nelle piazze della movida, che ha mai sentito nominare il generale Perotti e i suoi uomini, e poi Duccio Galimberti, il colonnello Montezemolo e i tanti martiri piemontesi della nostra libertà?

Anche la storia della Fiat viene rappresentata come quella di un carrozzone assistito dallo Stato, e non invece — come è stata — l’avanguardia della cultura industriale e tecnologica d’Italia, grazie al lavoro di centinaia di migliaia di tecnici e di operai. E anche le figure legate alla storia della Fiat, da Giovanni Agnelli — il Senatore — a suo nipote Gianni, l’Avvocato, fino appunto a Vittorio Valletta, sono state oggetto di attacchi ingiusti o di dimenticanze altrettanto ingenerose. Dedicare una via al ragioniere che fece rinascere Mirafiori dopo la seconda guerra mondiale sarebbe un primo segno per dimostrare che Torino è consapevole di se stessa, della propria storia, e del contributo che ha dato — come forse nessun’altra città — a fare dell’Italia un Paese democratico, prospero e moderno.