Msf lascia la trincea lodigiana: «La guardia deve restare alta»
L’Ong collaborava da marzo con gli ospedali locali: in corsia ha portato la lezione dei focolai di Ebola. «Ripartiamo, abbiamo imparato gli uni dagli altri»
by Francesco Gastaldi«Basta con i tagli, il coronavirus si vince con la prevenzione, la sorveglianza, l’igiene pubblica». Parola di Medici Senza Frontiere che per quasi tre mesi ha trasformato i luoghi della sanità lodigiani in una delle trincee in cui ogni giorno, in Africa, combatte Ebola o il morbillo. Proteggendo chi protegge i malati, ovvero medici e infermieri. Ieri l’associazione ha chiuso ufficialmente la propria collaborazione nel Lodigiano contro il Covid-19 richiamando alla base i 29 medici, infermieri, esperti di igiene, psicologi e promotori della salute che da inizio marzo hanno affiancato i sanitari dell’Asst Lodi negli ospedali di Codogno, Lodi e Sant’Angelo e in alcune delle case di riposo più colpite dall’epidemia. Il pensiero però va alla paura dell’ondata di ritorno: «Non possiamo escluderlo e non si può abbassare la guardia — afferma Claudia Lodesani, presidente di Msf Italia —, a febbraio nessuno era in grado di rispondere all’emergenza, oggi non ci si può far trovare impreparati». Gli operatori di Msf erano arrivati a Lodi a inizio marzo, quando la zona rossa della Bassa Lodigiana era ancora attiva. A Lodi e Codogno i primi interventi di riorganizzazione dei reparti, di separazione dei percorsi, di pratiche igieniche e di formazione del personale nell’affrontare un’ondata epidemica. A Sant’Angelo Lodigiano hanno assistito il servizio di Telemedicina per tenere sotto controllo oltre 200 malati covid in regime di sorveglianza a domicilio. Nel capoluogo hanno affiancato i dipendenti della casa di riposo Santa Chiara, oltre 80 morti su 280 ospiti e una situazione che rischiava di diventare ancora più esplosiva.
«Nelle strutture il rapporto con il personale è stato splendido e abbiamo imparato molto gli uni dagli altri — racconta Lodesani —: purtroppo la sanità italiana è burocratica, spezzettata, disarmonica. Paradossalmente è più semplice combattere un’epidemia nei paesi del Terzo Mondo. Qui si è incentrato tutto sugli ospedali, ma la prima risposta deve venire dalla medicina territoriale, che è stata troppo smembrata». Lodesani ieri è tornata nella sua Modena: a Lodi ha toccato con mano la sofferenza sia dei malati del primo focolaio del Covid-19 sia il sacrificio del personale sanitario: «È pesante vedere un’epidemia che si accanisce sulle fasce più fragili rendendole ancora più fragili; senza contare che affrontare un virus in Italia, invece che in altri Paesi, aggiunge una componente emozionale. Lavori su una malattia che potrebbe colpire i tuoi parenti, i tuoi affetti personali». Dell’esperienza nel Lodigiano restano i volti e le storie: «Particolare quella di un paziente entrato in ospedale per un banale intervento appena prima che scoppiasse l’epidemia e poi è rimasto imprigionato per oltre un mese. Stava bene, ma non potevamo farlo uscire. Poi dei richiedenti asilo gambiani che avevamo già incontrato nel loro Paese e a cui dovevamo spiegare pratiche igieniche comuni da insegnare ai loro connazionali nel Lodigiano. Sono diventati i nostri migliori portavoce».