Per qualcuno lo smart working
CIG ROBOT – PER QUALCUNO LO SMART WORKING È UNA FREGATURA: MOLTI DIPENDENTI DEL TERZIARIO SONO STATI MESSI IN CASSA INTEGRAZIONE ALL’80% PER VIA DEL VIRUS. VUOL DIRE L’INPS LI PAGA PER 8 ORE ALLA SETTIMANA. DOVREBBERO LAVORARE QUATTRO GIORNI LA SETTIMANA E INVECE SONO SEMPRE REPERIBILI. INSOMMA: GUADAGNANO MOLTO MENO, MA LAVORANO DI PIÙ…
Giuliano Balestreri per www.businessinsider.com
Marco – nome di fantasia –, lavora a Milano, nel marketing di un importante multinazionale straniera. E’ in smart working da fine febbraio, quando è esplosa l’emergenza coronavirus. Da metà aprile è anche in cassa integrazione all’80%: vuol dire che 8 ore la settimana gliele paga l’Inps (4 euro netti l’ora, all’incirca). In sostanza dovrebbe lavorare quattro giorni la settimana (o poco più di sei ore al giorno), ma la sua mole di lavoro non è mai calata.
In realtà non è cambiato nulla rispetto a prima se non che il suo stipendio è diminuito e che una parte gliela stanno versano tutti i contribuenti italiani: le riunioni in videoconference si tengono anche nelle ore in cassa; le email continuano ad arrivare ed esigono risposte. Per capire come comportarsi correttamente, Marco ha chiesto alla sua azienda cosa si può e cosa non si può fare in cassa integrazione: “Non dovreste lavorare, ma se state portando avanti un progetto valutate voi. Regolatevi come meglio credete”.
D’altra parte in smart working – in teoria – l’orario di lavoro viene gestito in autonomia dai dipendente. E di conseguenza la risposta dell’azienda suona come un invito non troppo mascherato a lavorare come sempre. Il confine è sottile: far lavorare un dipendente in cassa integrazione sarebbe truffa ai danni dello Stato, ma se è il dipendente a scegliere “liberamente” di continuare a fare quello che ha sempre fatto, a partecipare a riunioni – che non può perdere per non restare indietro – e a rispondere a mail e telefonate, il problema non c’è.
La storia di Marco è simile a quelle di decine di altri lavoratori del terziario: uomini e donne che lavorano in agenzia di pubblicità, nel mondo della comunicazione, dell’arte e della consulenza, attivi in tutte le cosiddette “professioni intellettuali“. Professionisti che spesso lavorano su progetti complessi semplicemente impossibili da quantificare in ore perché a contare è solo la qualità del prodotto consegnato al cliente finale. Che non accetta ritardi. Qualcuno ha scoperto di essere stato messo in essere messo in cassa integrazione retroattivamente, qualcun altro, invece, è stato più fortunato e a fronte di una cassa integrazione che arriva al 50% dell’orario si vede integrare interamente lo stipendio da parte dell’azienda.
“E’ una libera scelta dell’imprenditore che in questo modo fidelizza il dipendente” spiega Massimo Braghin, consigliere nazionale dell’ordine dei Consulenti del lavoro ed esperto di smart working secondo cui “il lavoro agile e la cassa integrazione sono di fatto incompatibili. Lo smart working disciplinato dalle legge 81 del 2017 è molto diverso da quello che stiamo vivendo in questi giorni”.
Il motivo è semplice: se il lavoro agile prevede che tempi e ritmi siano dettati dal dipendente vincolato solo dal risultato del proprio lavoro, la cassa integrazione prevede lo stretto rispetto delle regole. Più che lavoro agile, quello ai tempi del coronavirus, pare telelavoro con un controllo costante da parte del datore di lavoro.
“Per quanto riguarda lo smart working, l’accordo tra azienda e dipendente è fondamentale perché indica le regole del gioco. Chiarisce quello che si può fare – prosegue l’esperto – In questo momento viviamo una situazione molto complessa”.
Una situazione della quale qualcuno sta approfittando sfruttando le larghe maglie del Cura Italia: indicando la causale “Covid-19 nazionale” non si deve allegare nulla alla domanda di cassa integrazione che “può essere utilizzata per sospensioni o riduzioni dell’attività dal 23 febbraio e fino al 31 agosto” per 9 settimane. Poi prorogate ulteriormente.
Ad aprile i dati Inps hanno mostrato come i dipendenti in cassa fossero quasi 8 milioni in tutta Italia (poco meno della metà dei 18 milioni di italiani con un rapporto di lavoro subordinato), non tutti però hanno un cartellino da timbrare e proprio per questo il controllo del rispetto delle regole è semplicemente impossibile. Se in una qualunque azienda manifatturiera la verifica della cassa integrazione avviene con il conteggio delle ore lavorate, per gran parte del terziario questo strumento non esiste. A maggior ragione in tempo di smart working. Le verifiche da parte degli ispettori del lavoro avvengono in azienda, ma come possono verificare il rispetto delle norme da parte di chi sta a casa?
Motivo per cui diversi lavoratori in busta paga hanno visto da un lato la trasformazione di giornate di ferie in ore di cassa integrazione e ad altri è stata comunicata la riduzione dello stipendio senza un taglio del carico di lavoro: riunioni e mail proseguono senza il diritto alla disconnessione, mentre le consegne dei progetti non vengono posticipate. Tradotto: lo smart working da strumento di welfare aziendale rischia di trasformarsi in una trappola per i dipendenti e in una possibile truffa ai danni dello Stato. Se da un lato era urgente trovare una soluzione per salvare la vita a migliaia di imprese – e a milioni di dipendenti – dall’altra il governo avrebbe dovuto riflettere sulle conseguenza dell’incapacità a legiferare in modo chiaro e deciso.