Perché siamo tutti hongkonghesi
by Marco Lupis“Tutti gli uomini liberi, dovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino, e quindi, come uomo libero, sono orgoglioso delle parole “Ich bin ein Berliner!′”. Così diceva John Fitzgerald Kennedy nel celebre discorso pronunciato il 26 giugno 1963 a Berlino Ovest, nella Rudolph-Wilde-Platz gremita fino all’inverosimile. Se vivesse oggi, in questo 2020, JFK direbbe “Ich bin ein Hongkonger! – Io sono un Hongkonghese!”? Probabilmente sì.
Il discorso durante il quale Kennedy pronunciò la celebre frase, del resto, segnò uno dei momenti più difficili della guerra fredda. Quindi oggi non sembri esagerato paragonare la Berlino degli anni Sessanta alla Hong Kong odierna. Come del resto non dovrebbe apparire esagerato parlare dello scontro attuale tra Cina e Stati Uniti come di una Nuova Guerra Fredda, nella quale Hong Kong e i suoi abitanti – nuovi “berlinesi” del terzo millennio - sono vittime di uno scontro tra due giganti globali: allora erano l’Unione Sovietica e l’America, oggi sono gli Stati Uniti e la Cina.
E se la città di Berlino divenne per decenni il simbolo di questa divisione irragionevole e ingiusta tra due sfere di influenza globali e tra due modi di considerare (o non considerare) i principi fondamentali delle libertà democratiche e civili, così oggi quei “poveri” sette milioni e mezzo di abitanti di Hong Kong sono ormai divenuti vittime, loro malgrado, dello scontro tra due titani: vasi di coccio tra giganti d’acciaio.
Forse la principale – e paradossale – differenza tra le due città-simbolo, sta proprio in quel muro che divideva, come una ferita aperta, le due metà di Berlino, drammaticamente sospese tra il blocco occidentale e quello sovietico. Un muro che si voleva giustamente abbattere, come poi è finalmente accaduto. Oggi invece, i cittadini di Hong Kong probabilmente un muro simile lo vorrebbero erigere, al confine tra l’ex colonia e l’immensa Cina continentale, per mettere qualcosa di solido e – almeno simbolicamente – invalicabile, tra loro, il loro modo di vivere, la loro abitudine alla democrazia e il loro amore per i diritti umani e le garanzie civili, e l’oscurantismo, la censura, la prepotenza e l’ingiustizia sulle quali invece si fonda l’aggressivo regime che governa a Pechino, sotto la guida inflessibile del presidente-a-vita-imperatore Xi Jinping.
La legge sulla sicurezza nazionale proposta dal Congresso del Partito Comunista cinese (PCC) la scorsa settimana, approvata ieri a Pechino, ufficialmente con lo scopo di “reprimere il separatismo, la sovversione del potere statale, il terrorismo e le interferenze straniere” a Hong Kong, in realtà rappresenta la campana a morto per l’ex colonia britannica, un pretesto per eliminare ogni forma di dissenso: “essere accusati di un reato di sicurezza nazionale può significare l’isolamento e la detenzione segreta, senza accesso ad avvocati o alle proprie famiglie” ha dichiarato oggi Il vicedirettore di Amnesty International per l’Asia orientale e sudorientale Joshua Rosenzweig.
Da quando è iniziata quella che viene chiamata – non senza ragione – “La rivolta di Hong Kong”, in molti mi hanno chiesto se nell’ex colonia, ormai considerata a tutti gli effetti “ribelle” dal regime totalitario di Pechino (esattamente alla stregua di Taiwan, probabile prossima vittima della feroce repressione cinese) esistesse il rischio di un’escalation della tensione, fino ad arrivare a una nuova “Piazza Tienanmen”. Finora ho sempre risposto di no, convinto che la Cina non avrebbe osato ripetere gli errori di trent’anni fa, troppo preoccupata dalle ricadute internazionali e, soprattutto, economiche, di una tale scelta.
Un massacro a Hong Kong? Mi sembrava impossibile. Oggi la mia risposta sarebbe ben diversa. La strategia, del resto, a me pare molto chiara e anche collaudata: alzare la tensione interna a livelli “di guardia”, trasformando così una protesta pacifica e democratica come quella di Hong Kong in un banale “scontro tra fazioni” pro e contro Pechino, con uno scopo chiarissimo: innanzitutto giustificare una stretta autoritaria (già fatto, con questa nuova legge liberticida) e poi un intervento armato per riportare l’ordine.
Il rischio reale di un bagno di sangue, insomma. Il tutto condito da proclami di chiaro stampo nazionalistico-sovranista contro le ingerenze e gli attacchi di “potenze straniere”, allo scopo di eccitare la coesione patriottica dei cinesi e, nel contempo, distrarli dalle conseguenze catastrofiche della pandemia da Covid-19, sia sul piano economico interno, che su quello dell’immagine internazionale del Paese.
Intanto il Mondo occidentale tace, e l’Unione Europea balbetta. La Gran Bretagna – che ha firmato un accordo internazionale al momento del ritorno di Hong Kong alla Cina, proprio quello che adesso la Cina ha clamorosamente infranto – non dice nulla, mentre sarebbe quella ad avere più diritto ( e dovere) di chiunque altro a farlo.
E in tutto questo, per aggiungere al danno anche la beffa, qual è praticamente l’unica voce che si alza contro il comportamento inaccettabile di Pechino? Chi dovrebbe giocare a Hong Kong il ruolo che fu di JFK a Berlino? Un signore che si chiama Donald Trump, lo stesso che governa un Paese dove il comportamento brutale e ingiustificato della polizia provoca la morte per soffocamento, in “diretta video”, di un uomo di colore.
Uno che vuole mettere il bavaglio ai social media perché lo criticano, che in piena pandemia da coronavirus propone alla gente di iniettarsi disinfettante nelle vene e che ha pronunciato frasi indimenticabili come quella per cui “Le molestie e violenze sessuali sono la logica conseguenza della vicinanza di uomini e donne” oppure ha affermato che “Obama e Clinton sono i fondatori dell’Isis”…
Mi spiace per voi, amati concittadini di Hong Kong, ma temo proprio che – salvo clamorosi, e francamente molto poco probabili “colpi di scena” internazionali - la situazione non potrà che peggiorare.