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Peter Arnett: “La guerra in diretta nel salotto di casa”

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DALL’INVIATO A NEW YORK. Raccontare la guerra in diretta». Questa era la promessa di Ted Turner, che aveva spinto Peter Arnett ad accettare la scommessa dalla Cnn.

Aveva vinto il Pulitzer con l’Ap per il lavoro in Vietnam. Perché passare ad una tv di notizie che stava nascendo?
«Mi convinse l’incontro con Turner. Mi spiegò così la sua ambizione: "Diventeremo l’echo chamber del mondo. Al diavolo le barriere politiche, le scavalcheremo". Gli altri ci prendevano in giro. Ci chiamavano "chicken noodle news", perché non avevamo mezzi e i salari erano bassi. Ma proprio questo ci motivava a crescere ed essere sempre i primi sulle notizie».

Perché andò a Baghdad e ci rimase da solo durante la guerra?
«Avevamo cambiato la stessa definizione della notizia, da qualcosa che era accaduto, a qualcosa che stava avvenendo.Un’opportunità unica di raccontare la guerra in diretta».

Cosa ricorda del 17 gennaio 1991, la notte del bombardamento.

«Il cielo era così rosso, che sembrava che il sole fosse tornato. Le luci saltarono. Pensai: dannazione, tutto questo per nulla. Ma John Hollman aveva rimpiazzato le batterie nel telefono, e ci passavamo il microfono con Bernard Shaw. Verso le 3 del mattino i primi raid erano finiti, ma altri stavano arrivando».

Due settimane dopo intervistò Saddam. Come avvenne?
«Fu una sorpresa, perché era un target. Mi portarono con una Bmw nera, di pomeriggio, in una casa sicura nel distretto Cairo di Baghdad. Sapevo che lui era imprevedibile, ma non ero intimidito. Ero stato chiamato per una ragione. Lui era in fuga, io avevo il vantaggio psicologico. La porta si aprì ed entrò lui, solo. Vestito blu, baffi curati, mi diede una forte stretta di mano. Poteva recitare a Hollywood. Mi disse che la sua era la madre di tutte le battaglie, e di chiedergli quello che volevo. Sapevo che sarebbe stata un’intervista controversa, ma la decisione se fosse usata per la propaganda non era mia. La Cnn mi aveva incoraggiato ad intervistare Saddam, e avevo la mia occasione».

Qual è il ricordo più doloroso e indelebile di quella guerra?
«Il 13 febbraio, bombardamento del rifugio anti aereo di Amiriya. Soffocavo per il fumo, il calore non permetteva di respirare. C’era un odore terribile di carne bruciata. Le lampade illuminarono una scena infernale. Il mio piede scivolò sopra qualcosa di soffice, un cadavere carbonizzato. Il gestore del rifugio, Hassan Janadi, mi disse che dentro c’erano oltre 400 civili, soprattutto donne e bambini. Il Pentagono disse che era usato dai militari, il governo iracheno smentì. Il video che mandammo ad Atlanta conteneva le immagini più sanguinose della guerra. Un giorno che non avrei mai più dimenticato».

Nel 1997 intervistò Osama bin Laden. Come andò?
«Arrivò verso mezzanotte. Era alto, indossava la mimetica. Parlava con voce alta, ma soffice, guardandomi negli occhi. La notizia era che aveva dichiarato guerra agli Usa, minacciando violenze contro civili e militari americani. Ricordo l’ultima domanda, quando gli chiesi i suoi piani: "Li vedrete e li sentirete nei media, a Dio piacendo". Poi ci servì il tè. La mattina dell’11 settembre ero nel mio appartamento a New York, quando al Qaeda dirottò gli aerei contro il World Trade Center».