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Detenuti nel carcere di Izalco a San Salvador. La foto è stata diffusa dal governo il 25 aprile 2020. (El Salvador presidential press office/Ap/LaPresse)

Autoritratto di uno stato diventato brutale come le gang - Carlos Dada

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Autoritratto di uno stato diventato brutale come le gang

Le fotografie hanno un’estetica morbosa. File interminabili di uomini delle gang posizionati come se remassero coordinati, o provassero una coreografia sincronizzata. Una massa che distrugge ogni individualità e privilegia le geometrie dell’insieme; un organismo fatto di uomini uguali, prodotti in serie, rasati a zero, denudati a eccezione delle mutande bianche, pieni di tatuaggi, seduti con le gambe aperte per toccare con il petto la persona di fronte, con le mani ammanettate dietro la schiena, inevitabilmente a contatto con l’inguine e i testicoli del detenuto alle spalle, che ha a sua volta le mani ammanettate dietro, le gambe aperte e la testa appoggiata sulla spalla del detenuto di fronte. Attaccato uno all’altro. L’altro a un altro ancora. E così all’infinito, a perdita d’occhio.

Attaccati al punto che, se a una delle estremità qualcuno collegasse dell’elettricità, questa si trasmetterebbe come una catena fino all’altra estremità. Oppure un virus.

Se non ci fosse una macchina fotografica a immortalarla, la scena non avrebbe alcun senso. I detenuti sono stati tirati fuori dalle loro celle, disposti nel cortile fino a creare un assemblaggio ideale per i fotografi del governo di El Salvador. Il ritratto pianificato di un insieme di criminali, come un mostro dalle mille teste, sottomesso dalla mano pesante dell’esercito. Mano pesante. Ancora una volta.

Grande ondata di omicidi
Non c’è niente di spontaneo in queste scene. Diffuse dalla presidenza, le foto hanno occupato le prime pagine di riviste di tutto il mondo, sorprendendo i loro caporedattori non solo per la forza visiva, ma anche per il significato che veicolano: propaganda, populismo, brutalità premeditata. Un ammasso di esseri umani voluto dal governo salvadoregno in piena pandemia da coronavirus. Il tutto accompagnato da un tweet del presidente Nayib Bukele, che autorizzava la polizia a ricorrere alla “forza letale” nella lotta alle gang criminali.

Nel Salvador invece le immagini, come il tweet presidenziale, sono state apprezzate, probabilmente per le stesse ragioni. Com’è possibile che i salvadoregni festeggino quel che fuori del paese è condannato con tanto vigore?

Le foto sono state scattate dopo la più grande ondata di omicidi che questo governo abbia mai affrontato, attribuita ai membri delle bande criminali Mara Salvatrucha e Barrio 18. Sessanta morti in tre giorni, tra cui piccoli commercianti, venditori ambulanti e fornai, uccisi per non aver pagato il denaro dell’estorsione. Così ha vissuto buona parte dei salvadoregni negli ultimi tre decenni: sottomessa alla volontà dei criminali che violentano le sue figlie, che uccidono i suoi figli, che estorcono e controllano intere comunità.

Lo ammetto: dopo anni passati ad ascoltare i racconti degli orrori commessi dai delinquenti, non ho più lo stomaco di dire niente a loro discolpa. Capisco che sono un doloroso monito per tutto il male che abbiamo fatto come società, che loro stessi sono vittime dell’abbandono dello stato. Che sono cresciuti in un mondo che gli ha dato poche possibilità, nel quale il crimine dava un senso a una vita condannata alla miseria e nella quale la violenza era l’unico strumento di potere o di sopravvivenza.

Non si dovrebbero trarre lezioni morali dai cittadini disperati. Né esigerle

Capisco tutto questo. Ma ogni volta che ripenso alle madri che cercano i loro figli, o in lacrime per l’assassinio delle loro figlie, provo una stretta allo stomaco. Ogni volta che ascolto o leggo testimonianze della loro crudeltà, molte volte descritte da loro stessi, mi sento disgustato. Sono azioni abominevoli. E allora penso: se mi sento così io, chissà come soffrono i familiari di queste vittime.

Poche cose mi paiono più naturali del fatto che queste madri e questi padri approvino qualsiasi atto di repressione esercitato su questi criminali, e che le famiglie si sentano vendicate da qualsiasi azione che provochi sofferenza ai responsabili del loro dolore. Per questo capisco che si ammettano le immagini dei detenuti messi in fila, che siano approvate le esecuzioni extragiudiziali che i poliziotti commettono contro i presunti malviventi, anche se già immobilizzati, e l’invito di Bukele a poliziotti e soldati di ricorrere alla “forza letale”.

Il ragionamento è molto semplice: se le gang sono responsabili della maggior parte degli omicidi; se sottomettono centinaia di migliaia di salvadoregni al loro crudele dominio; se violentano le loro figlie, assassinano i loro figli, li ricattano con le estorsioni… Se sono insomma il cancro della nostra società, perché criticare chi contribuisce, in qualsiasi modo, a estirpare questo tumore? È questa la logica di fondo delle spirali della violenza. Però non si dovrebbero trarre lezioni morali dai cittadini disperati. Né esigerle.

Difendere lo stato di diritto
Il problema sorge quando sono le nostre autorità a violare la legge. Quando poliziotti o soldati si trasformano in rapitori, giudici ed esecutori. Quando il presidente s’impegna a usare tutte le risorse dello stato per difendere poliziotti che hanno abusato di questa forza letale. Quando, in piena pandemia, si organizza un’azione di sovraffollamento per inviare un messaggio politico, tramite le immagini di una coreografia grottesca. Il disprezzo per i diritti umani è scandaloso. Sì, è immorale. Ma è anche illegale.

Dalle autorità dobbiamo aspettarci, ed esigere, il rispetto delle leggi e azioni esercitate nei limiti delle leggi. Altrimenti delegittimano il sistema e le istituzioni della repubblica. Cancellano quello stesso stato di diritto che sarebbero obbligate a garantire e che gli conferisce, giustamente, autorità. E devono rispettare le leggi con tutti i cittadini. Con quelli che sono stati buoni, ma anche con quelli che sono stati cattivi. La punizione di questi ultimi, per aver attentato al nostro contratto sociale o ai nostri diritti, è effettivamente contemplata dalla legge. È la nostra unica giustificazione, come società, per mantenere degli esseri umani chiusi nelle nostre prigioni: è la punizione prevista per quanti violano la legge. È un principio elementare per la vita di una comunità: tutti abbiamo dei diritti e le autorità sono obbligate non solo a rispettare i nostri diritti, ma a garantirli.

Quasi tutti gli uomini delle gang che appaiono in quelle foto, erano dei bambini nel 2003

Ha ragione chi dice che gli uomini delle gang sono i primi a non riconoscere i diritti degli altri. Noi tutti c’indigniamo per ogni nuova notizia delle atrocità commesse da molti di loro. Ma questo non esonera lo stato dal rispettare i suoi obblighi legali. In questo consiste lo stato di diritto. Quando la polizia o il presidente violano la legge non stanno proteggendo i loro cittadini, ma tradendo i meccanismi concepiti per difenderli, ovvero le leggi e i tribunali che applicano la giustizia. Quel che fanno è trascinare il paese in una situazione alla “si salvi chi può” in cui le leggi non proteggono più i cittadini, ma solo la capacità di esercitare violenza.

“Non si può fare il male per ottenere il bene”, era stato il monito di monsignor Romero in una delle sue lettere pastorali, e lo ha ripetuto più volte nelle sue omelie. Quando si compie il male, ne conseguono mali maggiori.

Quasi tutti i membri delle gang che appaiono ammassati nelle foto diffuse dal palazzo presidenziale, erano dei bambini nel 2003. Quell’anno il presidente Francisco Flores lanciò la prima campagna di repressione delle bande. Incaricò poliziotti di sfondare le porte nelle comunità più povere, a mezzanotte, con il fucile spianato e di compiere enormi retate di ragazzi tatuati. In quelle stesse case vivevano quei bambini: fratelli, vicini o figli delle persone arrestate. Cosa speravamo che ne fosse di loro? E cosa ci aspettavamo che ne fosse della polizia, dopo che è stata lasciata impunita la prima esecuzione extragiudiziale, e poi la seconda, e la terza?

È una costante della nostra storia: quando lo stato infrange le leggi non fa altro che perpetuare il ciclo della violenza. Lo sappiamo perché politici di diversi partiti hanno utilizzato le gang a fini elettorali. La loro intenzione non è sradicare la violenza, bensì sfruttare la disperazione delle vittime che chiedono soluzioni urgenti a problemi urgenti. Perciò espongono pubblicamente i criminali cosicché la gente gli sputi addosso, gli dimostri il proprio disprezzo, gli auguri di essere uccisi dal virus, di ammazzarsi tra di loro o per mano della polizia. O scendono a patti con le gang perché riducano gli omicidi, trasformandole così in attori politici.

La violenza, ripeteva Romero, può essere sradicata solo occupandosi delle sue cause strutturali. Romero è stato il più importante difensore dei diritti umani. Le autorità che violano la legge, ammoniva, devono rispondere di questi crimini.

Mi preme ricordarlo perché Nayib Bukele è già il terzo presidente che, esponendo il ritratto di Romero nel palazzo presidenziale, autorizza violazioni dei diritti umani e si scaglia contro le organizzazioni che difendono questi princìpi fondamentali. Non che i presidenti precedenti avessero evitato il terreno della brutalità: ma non esibivano il ritratto di Óscar Romero nel palazzo presidenziale, una consuetudine inaugurata da Mauricio Funes.

Lo stato imbarbarito
Bukele non si è comportato diversamente. Nelle ultime settimane ha accusato le organizzazioni per i diritti umani di essere “organizzazioni di facciata” che difendono interessi nascosti. È una retorica che sfortunatamente in El Salvador conosciamo bene, già da prima che cominciasse la guerra. E ogni volta la usano coloro che giustificano la violazione dei diritti umani in nome della lotta ai nemici del popolo.

Quelle foto degli uomini delle gang in carcere, ammassati gli uni accanto agli altri, sono autoritratti dello stato. Nati come strumento di propaganda – immagine, violenza, politica – portano lo stato sullo stesso piano morale delle gang, quello di organizzazioni criminali. Mi spiego: le gang assassinano, stuprano, commettono estorsioni, sottomettono, minacciano; hanno all’attivo una lista lunghissima di barbarie, di atti inumani. Lo stato, invece, è umanista per concezione (l’essere umano, dice il primo articolo della costituzione, è l’origine e il fine dell’attività dello stato). È civilizzato. È una differenza fondamentale. Lo stato possiede il monopolio della forza, ma perché sia legittima dev’essere usata rispettando rigorosamente le leggi.

Nella strategia contro le gang o contro le bande di rapitori o trafficanti di droga, quel che è in gioco è proprio il trionfo dello stato (istituzionale, costituzionale, legale) su quanti minacciano tali valori. Vale a dire il trionfo della civiltà sulla barbarie. Il paradosso è che, invece di cambiare i criminali, di renderli civili, è lo stato a essersi imbarbarito. Se questa è una guerra tra le gang e lo stato, come sostenuto dal governo, allora è chiaro chi è che sta vincendo.

Al presidente Bukele danno fastidio le leggi, ma anche i diritti umani

Il 28 aprile, dopo l’ondata di critiche arrivate da organizzazioni legali e di difesa dei diritti umani, nazionali e internazionali, Bukele ha twittato: “Sappiamo tutti qual è il loro programma internazionale, che non ha nulla a che fare con i diritti umani. Il suo programma è difendere coloro che violentano, rapiscono, uccidono e fanno a pezzi”. L’attacco è continuato il 2 maggio: “Conosciamo il programma di queste ong di facciata, finanziate da poteri oscuri, che vogliono vedere l’America Latina trascinata nel caos. Grazie a Dio, le loro comunicazioni e lettere sono irrilevanti in El Salvador”. Si tratta di una posizione molto diffusa in America Latina: siccome i difensori dei diritti umani tacciono quando sono i criminali a violare i diritti, e protestano quando sono questi ultimi a essere colpiti, allora queste organizzazioni difendono i criminali. La cosa è, ovviamente, falsa.

Ci sono cose che le persone accusate di violazione dei diritti umani cercano quasi invariabilmente di ignorare: i cittadini colpiti dalle azioni di altre persone (le vittime di rapine, atti violenti, omicidi, estorsioni e così via) devono poter contare sulla protezione dello stato e sulle sue istituzioni – pubblico ministero, tribunali – per ottenere giustizia. Ma chi protegge i cittadini quando è lo stato stesso, o alcuni dei suoi funzionari, a violare i diritti dei cittadini?

I difensori dei diritti umani e gli avvocati hanno come compito proprio quello di difendere i cittadini (buoni o cattivi) quando le autorità hanno violato i loro diritti. Per questo sono state create queste figure. In El Salvador, l’ufficio per la difesa dei diritti umani (Pddh) è nato nel quadro degli Accordi di pace, per garantire che non ci saremmo più trovati indifesi di fronte ad abusi di potere. Affinché i cittadini abbiano qualcuno cui rivolgersi quando diventano vittime dello stato. In tutti gli altri casi, anche per le vittime di atti commessi dalle gang, è lo stato ad avere il compito di proteggere le persone e i loro diritti. Se le istituzioni non risolvono una questione (per negligenza, malevolenza o corruzione) le vittime possono rivolgersi al Pddh perché, oltre che di un delitto, sono vittime di uno stato che non ha reso loro giustizia. Esistono inoltre organizzazioni non governative di difesa dei diritti umani, che hanno come principale funzione la denuncia e il sostegno alle vittime.

A Bukele danno fastidio le leggi, ma anche i diritti umani. La loro realizzazione e la loro difesa ostacolano la concezione del potere di un presidente che non crede di doverlo condividere con altre istituzioni dello stato, e che considera come ostacoli i contrappesi del sistema democratico, siano essi il parlamento, la corte suprema, i tribunali, la Pdhh, i mezzi d’informazione, Human rights watch, Amnesty international, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, i sindacati, l’università gesuita Uca, l’ordine dei medici o qualsiasi altra organizzazione che critichi il suo operato. E che si frapponga tra i suoi piani e le sue truppe.

Simone Weil, la filosofa francese che tra le due guerre mondiali abbracciò il cattolicesimo operaio, aveva riflettuto su queste cose. E concluse che “la brutalità, la violenza e la disumanizzazione hanno un prestigio immenso… Per ottenere un prestigio equivalente, le virtù contrarie devono essere esercitate in maniera costante ed efficace”.

Quando si combatte la brutalità con altra brutalità, quando alla barbarie si risponde con la barbarie, il risultato è inequivocabilmente lo stesso: il proseguimento del ciclo della violenza.

Disprezzare i diritti umani e attaccare i difensori dei diritti umani ha l’obiettivo politico, come quasi tutte le espressioni di questa amministrazione, di sviare l’attenzione dal vero problema, che è strutturale. Per risolverlo, per spezzare cioè il ciclo della violenza, servono esattamente le misure opposte: prestare attenzione alle sue cause strutturali, a partire dal rispetto della legge, ovvero della civiltà. Anche con gli uomini di una gang.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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