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Foto di New Press / Getty Images

Quando Ibrahimovic salvò l’Inter a Parma

Il racconto dei 44 minuti dello svedese contro il Parma.

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«Le facce di tutti avevano riacquistato colore. Più che aver fatto gol, era come se li avessi salvati dall’annegamento». È curioso come nella sua autobiografia Zlatan Ibrahimovic non sia ricorso a un’immagine cristologica per descrivere i quarantaquattro minuti successivi al suo ingresso dalla panchina nel secondo tempo di Parma-Inter del 18 maggio 2008. Per un personaggio così attento a divinizzare il suo ego, quel tocco taumaturgico nell’acquitrino del Tardini sarebbe stato perfetto per paragonarsi a Gesù che cammina sulle acque, o a Mosé che le separa per condurre l’Inter lontana dal secondo 5 maggio.

 

Anche senza attingere a quel repertorio, in Io, Ibra lo svedese ha comunque scritto una grande verità: senza la sua doppietta, molto probabilmente quel giorno l’Inter avrebbe finito per annegare nelle sue insicurezze. A distanza di dodici anni quel pomeriggio resta comunque avvolto da una mistica accecante che nasconde un aspetto importante della storia, un lato di Zlatan Ibrahimovic che non siamo abituati a considerare, perché quel lampo di assoluta onnipotenza è scattato in un momento di grande fragilità fisica ed emotiva.

 

Come arriva l’Inter alla partita decisiva della stagione

Quando scende dal pullman con i compagni ed entra al Tardini, sono passati cinquanta giorni dall’ultima volta che ha messo piede in uno stadio. Fino a pochi giorni prima Zlatan si trovava a Umeå, dove un luminare svedese aveva cercato di lenire l’infiammazione al tendine rotuleo che gli aveva impedito di giocare le ultime sette partite di Serie A. Quel ginocchio è tutto fuorché guarito, ma l’Inter si sta giocando all’ultima giornata uno scudetto che aveva già in tasca, e non può farlo senza il suo miglior giocatore. L’Inter ha ancora il destino nelle sue mani – le basta vincere a Parma per rendere ininfluente il risultato del Massimino, dove la Roma seconda affronta il Catania – ma ci arriva al termine di una stagione logorante.

 

Ibrahimovic non solo non gioca da un mese e mezzo, ma non segna un goal su azione esattamente da un intero girone. L’ultimo era stato una zampata di controbalzo su cross di Cruz al 96’ di Inter-Parma, la partita che poteva riaprire la corsa scudetto e che invece l’Inter aveva ribaltato negli ultimi minuti proprio con una doppietta di Ibrahimovic.

Sul rigore del 2-2 si andrà avanti a discutere per mesi.

 

Quel 20 gennaio l’Inter, imbattuta come sarebbe rimasta fino a febbraio, era a + 7 sulla Roma e sembrava molto vicina a chiudere il campionato. Una discreta parte del merito per quell’inizio inarrestabile è proprio del suo numero 8. La stagione 2007/08 è quella della definitiva consacrazione per Ibrahimovic, quella in cui il processo di maturazione iniziato con Fabio Capello giunge a compimento e regala a Roberto Mancini un giocatore totale, che senza farsi mancare gol insensati (come contro Sampdoria e Siena), ne segna con continuità anche di decisivi, come appunto la doppietta di Parma. Ma è un’influenza che va oltre i gol: la sua presenza al centro dell’attacco rappresenta, insieme ai movimenti di Maicon sul binario destro, la principale direttrice del gioco offensivo di quell’Inter.

 

Un’influenza declinata dai giornali nel discutibile neologismo “Ibradipendenza” e messa nero su bianco dall’assegno staccato da Massimo Moratti, che gli offre un contratto fino al 2013 da 12 milioni di euro all’anno. Era impensabile che diciotto giornate dopo quell’Inter-Parma di metà gennaio si sarebbe arrivati a una partita che da sola valeva lo scudetto, e che Zlatan l’avrebbe iniziata dalla panchina senza aver segnato altri gol su azione nel frattempo. Invece, nei mesi successivi, la fragilità dello svedese e dell’Inter sarebbero emerse contemporaneamente, fino ad erodere le basi di un dominio che sembrava impossibile da scalfire. A metà strada tra Inter-Parma e Parma-Inter, infatti, la stagione dell’Inter ha rischiato di deragliare per le conseguenze di un altro doppio confronto.

 

 

Le due sconfitte in Champions contro il Liverpool sbriciolano le certezze del gruppo e creano una frattura interna tra lo spogliatoio e Mancini, che dopo lo 0-1 a San Siro preannuncia il suo addio con tre mesi d’anticipo. Inevitabilmente l’Inter subisce un contraccolpo anche in campionato, complice il calo verticale del rendimento di Ibrahimovic, palesemente limitato dal suo ginocchio sinistro. Dopo due mesi di strette di denti e antidolorifici, il 29 marzo è costretto a fermarsi del tutto, proprio nel momento decisivo della corsa scudetto.

 

Nelle prime cinque giornate senza il suo numero 8 l’Inter reagisce alla grande, rispondendo agli assalti della Roma con cinque vittorie che sembravano sigillare il primo posto in campionato, visti i sei punti di vantaggio a tre giornate dalla fine. Per lo scudetto ne bastano tre in altrettante partite: Milan, Siena e Parma. Nella conferenza stampa pre-derby, Mihajlović risponde così ad una domanda sull’importanza attuale e futura di Ibrahimovic: «Ibra è uno dei migliori al mondo, ma posso immaginare un’Inter senza di lui […] se non ci sarà lui [l’anno prossimo] ci sarà qualcun altro».

 

Poi arriva il Derby e l’Inter lo perde malissimo, venendo trafitta nel giro di quattro minuti da Filippo Inzaghi e Kakà. Peggio ancora è il pareggio con il Siena, in un San Siro stracolmo e pronto alla festa, con Materazzi che strappa il pallone dalle mani di Cruz prima di sparare addosso a Manninger il rigore del possibile 3-2.

 

 

Intanto la Roma non sbaglia una partita e arriva a tiro dell’Inter, distante solo un punto alla vigilia della trentottesima di campionato. A quel punto, improvvisamente, Ibrahimovic torna imprescindibile. 

 

La settimana di Parma-Inter

La settimana che porta al 18 maggio è scandita dal solito profluvio di pareri e pronostici. Ligabue dice che la sua Inter «se la sta facendo addosso», Claudio Amendola scaramanticamente prevede una vittoria immeritata dell’Inter. Antonio Matarrese invece profetizza che tra Inter e Roma «lo scudetto lo vince chi è più tranquillo». Se è davvero così, a Roma farebbero meglio ad avvisare Sabrina Ferilli e a transennare il Circo Massimo. L’Inter è in silenzio stampa dalla partita col Siena, ma basterebbero i toni giornalistici, che spaziano tra il militare e l’apocalittico («Inter rinchiusa nel fortino di Appiano», «paura per l’invasione di tifosi») per capire che aria tira dentro e fuori la Pinetina.

 

Il termometro emotivo più preciso è proprio quello dei tifosi, come i 200 che dopo Inter-Siena hanno congedato i giocatori al ritmo di «andate a lavorare» o l’anonimo tifoso di Pisa che ha lanciato il proprio 28 pollici dal balcone dopo il rigore sbagliato da Materazzi.

 

Quella di Mancini è una squadra fisicamente e mentalmente tenuta con lo scotch, priva di parecchi titolari – oltre a Ibra, mancano Chivu, Samuel, Cordoba, Cambiasso e Figo – e sull’orlo di una crisi di nervi dopo i matchpoint bruciati nelle ultime due giornate. Come se non bastasse, proprio in quei giorni scoppia il caso intercettazioni, che coinvolge indirettamente alcuni giocatori e dirigenti interisti. Insomma, non il miglior clima per preparare il match dell’anno.

 

Zlatan torna in Italia e si trova davanti una situazione infuocata. Alcuni compagni, come Julio César, gli chiedono se se la sente di giocare. Lui risponde di sì, anche se per larga parte della settimana si è allenato a parte. Mancini invece è più tassativo e gli dice di tenersi pronto, perché di sicuro giocherà. Magari non dall’inizio, ma giocherà.

 

Alle 15 del 18 maggio si accomoda sulla panchina degli ospiti. Vede la partita iniziare sotto un cielo plumbeo e l’Inter affrontarla come se fosse meteoropatica. I suoi compagni, che Mancini schiera in un 4-1-4-1 con Cruz davanti e Balotelli e César ai suoi lati, non riescono né a far valere uno scarto tecnico abissale né a dominare la battaglia di nervi che il Parma ha deciso d’imbastire.

 

Dall’altra parte il Parma deve fare risultato per salvarsi. Ghirardi ha esonerato Di Carlo a marzo sostituendolo con Hector Cuper, ma incredibilmente il tecnico argentino viene mandato via proprio prima dell’ultima giornata che lo avrebbe visto opposto alla sua ex squadra dopo essere stato su quella dell’Inter il 5 maggio. Il presidente risponde a chi lo accusa di voler favorire l’Inter con questa decisione che «gli unici che possono salvare il Parma sono i calciatori». In panchina siede il tecnico della Primavera Manzo.

 

Quando all’ottavo minuto il maxi schermo del Tardini annuncia il vantaggio della Roma, l’Inter ha un vuoto che potrebbe diventare fatale se Morrone riuscisse ad angolare il suo destro da dentro l’area piccola. Per di più inizia a piovere, il campo diventa pesante e aggiunge difficoltà a chi dovrebbe fare la partita ma non ha la forza tecnica e soprattutto mentale per schiacciare l’avversario.

In panchina le facce sono impietrite dalla tensione, Moratti segue corrucciato dalla tribuna d’onore. Poco distante, Cambiasso cammina nervosamente sputando improperi in porteño. Dopo un primo tempo con più cartellini gialli che tiri in porta, si va negli spogliatoi con la Roma capolista.

 

Le responsabilità di Ibrahimovic

 A pochi minuti dall’inizio del secondo tempo, le telecamere stringono sui giocatori dell’Inter pronti a rientrare in campo. In tanti hanno la faccia di chi sta andando incontro alla storia con gli occhi bendati e le mani dietro la schiena. Maicon abbozza un sorriso nervoso, Stankovic sembra una statua, Rivas è talmente agitato da battere a ripetizione la testa sulla spalla di Vieira.

 

La regia stacca sulla stretta fascia di bordocampo, dove un solo giocatore dell’Inter si sta scaldando. Ibrahimovic corricchia su e giù per la fascia laterale, il volto pensoso dell’eroe messo in disparte: «Tu te ne stai seduto lì. Gli altri vanno fuori ad allenarsi. Ti trascini in palestra e dalle finestre vedi i tuoi compagni di squadra sul campo. È come vedere un film nel quale dovresti esserci anche tu, ma non puoi» così scriverà di quei giorni nella sua autobiografia.

 

Se l’Inter dovesse buttar via quello scudetto, il colpevole principale sarebbe lui, e quel fallimento sarebbe visto come l’ennesima prova del suo rimpicciolirsi davanti alle occasioni più grandi. Ibrahimovic ha già vinto 3 scudetti da protagonista, ma mai gli è stata chiesta una prova di responsabilità come quella che sta per arrivare con il Parma. Al massimo qualche anno prima aveva deciso ai supplementari la Coppa d’Olanda del 2002 entrando dalla panchina e aveva festeggiato strappandosi di dosso la maglia dell’Ajax. Erano altri tempi, altri contesti, e lui era un giovane svedese semi-sconosciuto, non uno dei migliori giocatori al mondo. 

 

 

Non essere nel pieno delle forze per uno come Ibrahimovic è un problema. Nessuno come lui è in grado di usare a proprio vantaggio il fisico eccezionale che si porta dietro e ipotizzare una sua versione azzoppata è davvero difficile. C’è un’area grigia tra l’infortunio e il “non essere al meglio” che i giocatori più decisivi spesso frequentano nei momenti decisivi della stagione, senza che però questo possa essere considerato una scusa davanti a opinione pubblica e tifosi, dopotutto non scendono in campo con le stampelle. Quando l’Inter esce con il Liverpool e Ibrahimovic gioca male, viene crocifisso da tutti, senza che nessuno sottolinei il dolore al ginocchio con cui era sceso in campo. 

 

Ibrahimovic quindi si prepara a scendere in campo per prendersi la responsabilità più importante della sua carriera fin lì –  perché è in qualche modo implicitamente accettato da tutti che a risolverla debba essere lui –  nel momento in cui il suo corpo è meno pronto a farlo.  

 

Gli sguardi e gli «Ibra pensaci tu» che i compagni gli rivolgono mentre si sistema la maglia nei pantaloncini ribadiscono il discorso à la Yoda fattogli da Mihajlović qualche giorno prima: “«Ibra» disse; «So cosa vuoi» feci io; «Ok, ma ascolta una cosa. Non c’è bisogno che ti alleni. Non devi fare proprio niente. Ma devi esserci contro il Parma, e devi aiutarci a vincere.»; «Ci proverò» promisi; «Non devi provarci. Devi riuscirci» replicò lui prima di lasciare la stanza”.

 

Ibra in campo

Per Zlatan il momento di riuscirci arriva al 50’. Mancini lo butta nella mischia al posto di César, che ironicamente era in campo con la maglia della Lazio il 5 maggio e aveva servito l’assist per il 4-2 definitivo. Il suo ingresso viene accolto da un concerto di fischi e applausi, un misto di paura e speranza che si ripercuote immediatamente sulla partita, che inizia a scaldarsi quando, dopo nemmeno cinquanta secondi, Ibra si libera sulla trequarti, avanza in conduzione, prende la mira e calcia. Il suo destro si spegne debole a lato, ma funziona da primo avvertimento. La difesa del Parma recepisce il messaggio e al 58’, quando tocca il primo pallone in area, nel giro di due secondi, lo circonda con sei giocatori.

 

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L’espressione appena prima di entrare in campo.

 

Al 60’ Julio César rinvia lungo per Cruz, che di testa prolunga sullo svedese che controlla e si libera di Paci con un unico movimento, poi si aggiusta il pallone ma calcia troppo presto, come preso dalla foga di doverci riuscire a tutti i costi. Altro tiro debole, ma gli avvertimenti ormai sono due. A quel punto il terrore della difesa del Parma ha superato i livelli di guardia. Memori di quanto successo all’andata, i centrali Couto e Paci non vogliono nemmeno fargli stoppare il pallone.

 

Non a caso un minuto più tardi, quando Stankovic gli serve un passaggio relativamente innocuo, Couto prova un anticipo sconsiderato a quaranta metri dalla porta. Ibrahimovic lo vede arrivare con la coda dell’occhio e lascia sfilare il pallone come un torero. Aveva fatto la stessa identica finta qualche mese prima, contro il CSKA, segnando uno dei goal più belli della sua carriera, la ripropone per segnare il più importante fin lì. Sul secondo tocco si aggiusta la palla, che però, complice la pioggia, gli sguscia un po’ più lunga di quanto vorrebbe. Allora è costretto ad accelerare la coordinazione e ad anticipare il destro per evitare il recupero in scivolata di Castellini. Il risultato è un diagonale basso e un po’ strozzato, che sfruttando l’aquaplanning sul prato del Tardini schizza un paio di volte guadagnando velocità.

 

Non è di sicuro il suo tiro migliore, ma è abbastanza angolato da insaccarsi alla destra di Pavarini e togliere un macigno gigantesco della schiena dell’Inter, che torna in testa al campionato dopo cinquantadue agonici minuti dal gol di Vucinic a Catania.

 

 

Ibrahimovic abbozza un’esultanza ma poi resta immobile, aspettando che i naufraghi arrivino a sommergerlo, ed effettivamente arrivano tutti, tranne Stankovic che resta piegato in ginocchio, forse a piangere, forse a pregare, incarnando alla perfezione lo stato d’animo di milioni d’interisti. In tribuna è delirio totale. Moratti riceve più abbracci di Ibra, mentre Cambiasso, che nel frattempo ha raggiunto Gianfelice Facchetti nel box presidenziale del Parma, esulta in modo talmente sguaiato da farsi cacciare dalla madre di Ghirardi. Ovviamente non è ancora finita. Mancano ancora 30 minuti, e la storia interista è troppo ricca di harakiri per pensare di tirare il fiato.

 

Per restare aggrappato alla A il Parma si affida al totem Cristiano Lucarelli, entrato al posto di Cigarini. Il trentatreenne nel giro di cinque minuti va vicinissimo a guadagnarsi un rigore, ma il giocatore che va più si avvicina a segnare è il più giovane tra quelli in campo. Balotelli ha 17 anni, ed è anche merito suo se l’Inter è rimasta a galla durante l’infortunio di Ibrahimovic. Quella domenica ha giocato una partita di sacrificio, ciondolando volenterosamente nei ripiegamenti difensivi, ed è stato uno dei più propositivi in attacco, al punto da far ammonire tutta la catena sinistra del Parma. Al minuto 64 gli arriva sui piedi l’occasione per chiudere la partita, ma il suo diagonale viene respinto da una grande parata di Pavarini.

 

Balotelli se lo meriterebbe anche il gol, ma è sempre più evidente che c’è spazio per un solo eroe. È incredibile come le occasioni continuino a piovergli addosso. Al 74’ Maicon trotta lungo la trequarti e lascia partire un cross che sorvola l’area fino ad arrivare sul secondo palo, Ibrahimovic è in buona per posizione, alza la testa e si prepara a colpire, ma Cruz gli si mette in mezzo e il pallone sfila lungo verso il fallo laterale. Col senno di poi, quell’occasione sembra la prova generale di quello che succede al 78’, quando di nuovo Maicon affonda da destra, entra in area e mette un’altra palla morbida sul secondo palo. Il terzino destro del Parma Coly, fino a quel momento impeccabile, si distrae e si lascia scavalcare dal pallone. Ibrahimovic conta i passi, prende la mira e apre il piatto sinistro. 

 

Ventotto minuti, sette tiri, due goal. Zlatan corre verso la bandierina e abbozza una scivolata che nonostante il campo fradicio s’interrompe nel giro di un metro, e allora resta a braccia aperte, ansimante e sorridente, mentre si prepara ad un altro abbraccio di gruppo. Nel frattempo la panchina dell’Inter è deserta, sono tutti in piedi, Moratti in tribuna emana luce propria, Cambiasso probabilmente sta rischiando il DASPO.

Gli ultimi minuti scorrono senza che si giochi realmente a calcio, un po’ perché il campo è ridotto a una risaia, un po’ perché da Catania è arrivata la notizia che il Malaka Martinez ha pareggiato, quindi i verdetti sono certi: per l’Inter è il sedicesimo scudetto, per il Parma la prima retrocessione in B. Al silenzio glaciale dei tifosi di casa si contrappone il delirio degli ospiti, che si sono infiltrati a migliaia nonostante il divieto di trasferta.

 

Il finale 

Al triplice fischio di Rocchi, la parte di spettatori interisti allo stadio tracima in campo andando a caccia delle icone dei protagonisti dello Scudetto. Zanetti viene fatto ostaggio dell’affetto di una cinquantina di tifosi, Materazzi abbraccia chiunque gli capiti a tiro ed è il più felice di tutti, visto che nessuno sembra ricordarsi del rigore contro il Siena. Ibrahimovic completamente sfinito e spogliato di una maglia finita chissà dove, viene messo in salvo da Toldo che lo scorta negli spogliatoi.

 

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Foto New Press/Getty Images

 

Proprio negli spogliatoi, dopo i festeggiamenti, arriva il momento dei saluti, perché è chiaro a tutti che quello sarà l’ultimo anno di Mancini. Se stiamo alla testimonianza dello svedese, tutti i giocatori a turno vanno da Mancini, gli stringono la mano e lo ringraziano per quello che ha fatto in quei tre anni. Quando arriva il suo turno, Ibrahimovic guarda il suo allenatore con un ghigno beffardo e si limita a dirgli «Prego». Come dire: «Avevi dubbi che te la risolvessi? Perché io non ne avevo».

 

E invece qualche dubbio sembrava avercelo, anche se testa di Ibrahimovic per i dubbi e per la fragilità non c’è spazio. Se guardiamo l’esultanza, il momento di massima spontaneità per un calciatore, nella sua mimica non c’è la sicurezza sprezzante di altri momenti di dominio, quando non aveva alcun dubbio di poter piegare il corso degli eventi. Dopo il secondo goal in quel volto felice e distrutto dalla fatica si legge il sollievo di chi, forse per la prima volta, ha fatto i conti con la possibilità di fallire anche al di là dei propri demeriti. E questo non diminuisce, semmai aumenta, la straordinarietà di quei quarantaquattro minuti leggendari.