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Dedicato a Dario / Parecchi anni fa l’avevo visto succedere in un film. E nonostante il film fosse sciapo un bel po’ (nemmeno ricordo il titolo) mi era sembrata un’idea interessante. I due fratellini protagonisti, nel bel mezzo di una minaccia termonucleare avevano deciso di lasciare ai posteri una traccia tangibile della loro presenza sulla Terra. Si erano inventati una “capsula del tempo” da sotterrare in giardino. Avevano recuperato un tubo di latta e lo avevano sigillato per bene da un lato per poi riempirlo con i loro “tesori”: il teschio di un opossum, foto di famiglia, musicassette con le loro voci registrate, disegni, robe così. Del film non ricordo molto altro. E non ricordo nemmeno perché, anche se avevo già vent’anni suonati, decisi di fare altrettanto con uno spesso tubo di cartone (che aveva già ospitato palle da tennis e un teleobiettivo) rivestendolo prima con un foglio di alluminio e poi con della plastica cerata.
Dopo svariati giri di nastro adesivo e spago, il tubo finì per somigliare a una strana soppressata pronta per una stagionatura infinita. Come prototipo (perché quello che in realtà desideravo era una capsula ovoidale in metallo a tenuta stagna) poteva andare. L’involucro era pronto, mancava il contenuto. La soppressata temporale rimase vuota per mesi. Era stata un’idea bislacca e lo sapevo ma, come da mia personale consuetudine, facevo una certa fatica ad ammetterlo. Così, un po’ per tigna, un po’ per un non meglio definibile senso del dovere, nel giro di un paio d’anni la capsula fu riempita con piccoli foglietti piegati in quattro. Su ogni foglietto avevo riportato consigli altrui, esperienze preziose, faccende che avevano bisogno di “fermentare” un po’. Tanti possibili promemoria per un futuro allora impensabile.
Prima di sparire senza preavviso nello spazio/tempo di casa mia, la soppressata temporale diventò così una specie di decanter emozionale. Ritrovarla avvolta in un bozzolo di carta sul fondo dell’ennesimo scatolone inevaso dell’ultimo trasloco mi ha fatto un certo effetto. Rivangare alla cieca mi devasta sempre un po’, ma prima di buttare via tutto mi sono concesso un tentativo. Tolta la polvere, lo spago, la stagnola e il tappo ho tirato fuori un foglietto. Uno soltanto. Ed è andata bene. Su carta a quadretti colorata ho ritrovato il prezioso consiglio di un amico che ora non c’è più. Poche parole schiette e perfette che, per fortuna, dopo quasi tre decenni mi fanno ancora riflettere. E sorridere.
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