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(Foto: Maurizio Maule/Ipa)

La Lombardia ha bisogno di un'altra settimana, il resto d'Italia forse no

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Weekend decisivo per la ripresa della circolazione fra le regioni: il governo è stretto fra Nord e Sud e per stessa ammissione dei suoi consulenti non dispone di dati attendibili

In che modo spieghiamo a un molisano, nella sua regione 435 casi ufficiali dall’inizio dell’emergenza e un paio di persone in terapia intensiva, che non può sconfinare in Calabria (senza contagi da giorni, una sola persona in TI, 31 ricoverati) perché alla Lombardia e forse al Piemonte occorre più tempo? Fosse servito più tempo al Lazio o alla Campania, il discorso sarebbe stato lo stesso, ovviamente. Appena tre settimane fa, d’altronde, l’esecutivo aveva stabilito che la Fase 2 sarebbe stata modulata sul territorio. Appena l’11 maggio il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia spiegava per esempio che “la nostra speranza è ripartire in tutte le regioni con le stesse condizioni” di sicurezza “ma con differenze territoriali”.

Al contrario, se i dati del monitoraggio del ministero della Salute in arrivo fra oggi e domani relativi alle zone più colpite non dovessero essere soddisfacenti, l’incontro del governo con i presidenti regionali, in programma sempre domani, potrebbe stabilire un ulteriore slittamento di sette giorni. Corretto, sacrosanto dove occorre. Non per tutte e 20 le regioni: “Spostamenti liberi tra le regioni dal 3 giugno oppure rinvio di una settimana dell’entrata in vigore del decreto per tutti” scrive Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera. Il governo è in sostanza stretto fra due fuochi: non può onorare l’impegno a procedere in modo differenziato, perché Fontana e Cirio non lo accetterebbero, e al contempo è minacciato dalle regioni del Sud che addirittura si spingono a chiedere “certificati di negatività” per accogliere residenti dal Nord.

Detto che il “passaporto sanitario” per ora viene escluso – sia per l’attendibilità dei test sierologici che per una più essenziale questione costituzionale e di eguaglianza fra i cittadini – l’unico modo è aprire tutti il 3 giugno oppure slittare tutti di una settimana. Ipotesi, questa seconda, per cui spingono il ministro della Salute Roberto Speranza e il comitato tecnico-scientifico. Nel frattempo, ne abbiamo parlato l’altro giorno, da mercoledì prossimo dovrebbero iniziare ad arrivare visitatori dallo spazio Schengen. Mentre gli italiani, se si dovesse decidere per un’estensione, saranno ancora bloccati: ovviamente qualora la ripresa della circolazione interregionale dovesse slittare, anche la quarantena per gli arrivi dall’estero dovrebbe essere confermata per lo stesso periodo. Ma tutto è possibile, in questo grottesco paese.

Eppure negli ultimi giorni il 65% dei nuovi contagi si registra in una regione che, come noto, non sembra cercarli neanche troppo bene. Dall’inizio della crisi la Lombardia conta 88mila casi su 230mila, poco meno del 40%. Bisogna ovviamente osservare i 21 indicatori stabiliti dal cts, i cui valori arriveranno appunto oggi, compresi gli indici di rischio netto e quello potenziale, vale a dire i nuovi contagi settimanali e il numero di malati complessivi rispetto alla popolazione, per fotografare meglio la situazione attuale. Al netto, come sempre, dell’affidabilità dei dati su cui si moltiplicano polemiche quotidiane. Daranno un quadro più chiaro dell’ultimo periodo e non la cristallizzazione di una situazione storica. Ma, al di là dei dettagli, negare che la Lombardia abbia vissuto e stia ancora affrontando una crisi epidemiologica ben diversa da quella del resto del paese sarebbe insensato.

Pe quale ragione non dovrebbe dunque affrontare una fase di ripartenza almeno in parte differenziata rispetto al resto del paese? Altro che “sentimento antilombardo” o reazioni fuori fuoco di Beppe Sala ai preoccupati governatori del Sud che pure propongono l’improponibile (“ce ne ricorderemo”): dovrebbe essere la stessa amministrazione regionale a prendere atto della situazione e a procedere con la massima cautela dopo gli errori delle prime settimane di marzo. Perché di questa responsabilità non c’è traccia? In che modo giustifichiamo a un laziale o a un abruzzese, sulla base dei numeri dei loro territori, l’impossibilità di sconfinare per una gita? Mandiamo loro un’e-mail della premiata coppia Fontana-Gallera (o magari un bel messaggino di falsa positività, com’è accaduto all’Ats di Milano due giorni fa in un nuovo pasticcio gestionale)?

Walter Ricciardi, consulente del ministero della Sanità, spiega oggi su Repubblica che “ci sono motivi seri per pensare che in alcune regioni” i dati in arrivo non siano “attendibili. E sulla Lombardia risponde che “hanno 20mila positivi a domicilio, senza contare gli asintomatici che non sanno di essere contagiati. Questi dati invitano alla massima prudenza. Poi il decisore è politico. La Corea ha chiuso con 70 casi e la Cina 40”.

Non solo il decisore è politico ma anche la battaglia che si sta conducendo è ormai squisitamente politica: con dati in arrivo da molti territori ritenuti “inattendibili” aumenta il potere di pressione da parte dei governatori, dall’uno e dall’altro lato. Quelli che vogliono riaprire anche con un quadro ancora poco chiaro e con decine di nuovi contagi al giorno, “whatever it takes”, e quelli che invece giocano a fare gli sceriffi delle contee americane dentro i confini nazionali. La salute, e le necessità specifiche di un territorio martoriato – ma anche quelle di altre zone, ormai sotto controllo e meritevoli di recuperare piena mobilità – è finita al secondo posto.