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Fusco, la tenerezza del duro innamorato

La relazione con Floriana Maudente negli anni '60 mostra un lato segreto dello scrittore

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In realtà nessuno ha mai capito se sono più belli i suoi pezzi o la sua vita. Ma chi se ne frega. Per un grande giornalista non sono la stessa cosa?

Gian Carlo Fusco (1915-84), che fu un giornalista, viveva per scrivere, al contrario di chi fa il giornalista, che scrive per vivere.

Lavoro? No, lavori. Badilante di lusso del giornalismo, senza mai averne il tesserino, Fusco - spezzino tutto d'un pezzo: aspro, entusiasta, guerriero - di mestieri ne fece moltissimi. Alcuni veri altri inventati (come l'essere partigiano: alla macchia non ci andò mai), ma cosa importa? Boxeur, buttafuori, telegrafista, attore (nel film Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli, anno di scarsa grazia 1973, ma nel cinema lavorò anche con Gassman e Carmelo Bene), persino ballerino. Ma tutto questo per sopravvivere. Per vivere tirava il carrello: incatenato alla macchina per scrivere, in quarant'anni di disonorata carriera buttò fuori migliaia di pezzi per decine di giornali - Il Mondo, L'Europeo, Il Giorno di cui fu una «Colonna», L'Espresso, fra cronaca, sport, costume, politica, mondanità, storie di mala e di vita quotidiana - e poi romanzi, racconti, commedie (una con Enzo Biagi, erano molto amici), testi radiofonici, sceneggiature... Ma, lo sanno bene i fuscologi, tutte quelle pagine non valgono una sola delle sue serate passate a raccontare storie. Formidabile narratore en direct, chi l'ha sentito parlare dice che solo Beppe Viola, forse, avrebbe potuto tenergli testa. Ce lo siamo perduto, peccato.

Pieno di peccati, vizi e guasconate, Fusco - come i veri Duri, di Marsiglia o d'altri lidi - sapeva però essere tenero e galante. Un gentleman, sì.

E lo dimostra, inaspettatamente, un estroso carteggio: un pugno di sette lettere di rose, gelosie e nomignoli - Misciù, Michette, Gian Misciù - fino a oggi inedito e sconosciuto, scoperto da Dario Biagi, fuscologo major e biografo optimum (L'incantatore, Avagliano, 2005), e ora pubblicato nel volume Lettere d'amore di un eccentrico. Epistolario tra Gian Carlo Fusco e Floriana Maudente (Avagliano).

Lui, è lui: un talento irriverente e irriguardoso di quelli che non ne circolano più. Come disse una volta Maurizio Cabona, «fu più una figura americana che italiana, fra grandi sbornie e buoni testi», dedito ai superalcolici, che acquistava all'ingrosso come «bar Fusco», con la stessa passione che riservava alla scrittura, che era poi il suo riflesso: irregolare e unica. Lei invece era Floriana Maudente (Torino, 1920 - Milano, 2002), «Flori», originaria di una famiglia alsaziana e cresciuta a Bologna: rispetto a Fusco, che non finì mai uno studio, aveva una laurea e mezza, in Giurisprudenza all'Alma Mater e due anni alla facoltà di Lingue straniere a Ca' Foscari, che abbandonò proprio per fare - anche lei - giornalismo. Partì dall'Alto Adige, passò dal settimanale La Tribuna, firmò con tante testate - Settimo giorno, Epoca, Arianna - e finì con il lavorare all'ufficio stampa del festival del Cinema di Venezia, continuando a scrivere recensioni, girando da un festival all'altro, sempre single e con la vista ormai troppo bassa, fino all'ultimo giorno, 82 anni: «Che vuoi che ti dica? - scherzava con gli amici - Preferisco morire sulla poltrona di un aereo che su quella di casa mia». Pensò tutta la vita ai suoi pezzi, ai giornali e al cinema.

Esattamente come Fusco, così diverso da lei. E quindi perfetti per ritrovarsi al posto giusto nel momento sbagliato delle loro vite. Il risultato fu amore breve, passionale e dimenticato. E un libro, questo.

Gian Carlo Fusco e Floriana Maudente si conobbero nella primavera del '62 (il carteggio dura un anno, fino al luglio '63, ma restano solo le lettere di lui) a Milano, fra «Le tre gazzelle» e il «Santa Lucia». Sono entrambi all'apice delle loro carriere - lui è un grande nome con la faccia da pugile, lei una firma elegante con il profilo da mannequin; lei altoborghese, lui da bassifondi; lei occhiali glamour e giro di perle, lui baffo anarchico e Gauloises - tutti e due matti per il cinema, i film, le feste, i festival, i treni, gli aerei, i gin tonic, ore piccole e grandi interviste, e le corrispondenze «dal nostro inviato a...».

Una corrispondenza d'amorosi sensi. Quando si incontrano sono entrambi liberi (ma lui con molte donne, mettiamola così) e in un momento di svolta. S'innamorano. «Perché quello che conta, quando ci si trova, è come ci si incontra, quello che si dice nei primi cinque minuti e quello che si fa», le scrive nella prima lettera Fusco-Misciù. «Noi ci siamo incontrati bene, e bene insieme staremo».

Invece saranno sempre sul chi vive, stando male. E si lasceranno peggio. Quel che resta di quei giorni però è un pezzo di letteratura quotidiana, uno spicchio delle loro biografie e uno spaccato di un'Italia passata. Fusco in quel momento si sta trasferendo da Milano a Roma, ha perso il ruolo di primadonna al Giorno, i debiti di gioco si fanno sentire e cerca nuove avventure. Comincia la sua personale bohème nella Capitale e s'addentra nella giungla del cinema, soggettista e sceneggiatore per Dino De Laurentiis. Ma attrici e superattici sono così diversi dalle sue cocotte e dalle osterie. «Inebetimento dell'Urbe, Kaputt mundi», annota. Dolce vita e lettere malinconiche. «Non amarmi con tutta te stessa. Da parte tua, sarebbe non volerti bene».

L'amore durò poco, più per colpa di lui che di lei, ma lasciò in entrambi un segno. L'ultima lettera è un meraviglioso autoritratto: «Ho lavorato molto, onestamente, cercando di mettere nel mio lavoro il meglio di me stesso, e non mi sono arricchito. Non ho mai chiesto raccomandazioni. Non ho mai strisciato di fronte a chicchessia (...). Forse, se non vivessi in una società che ha trasformato, per sua comodità, le virtù in colpe, e viceversa, sarei un uomo per bene. Così, non fosse altro dal punto di vista del sapere vivere, sono solo un eccentrico. Che sa scrivere, però, facendo il mestiere di scrivere. Non è poi tanto poco». Non si rivedranno mai più.

Per il resto, lui morì nel 1984, dimenticato da tutti («Ma non era giù morto?», chiesero i colleghi quando stava per essere sepolto in una fossa comune, senza esequie). Lei, invece, tenne una foto di Fusco nel suo tesserino di giornalista per tutto il resto della vita. E anche questo, non è tanto poco.