Cosa significa per l'ambiente una società in quarantena che fa tutto su internet?
by Antonio PiemonteseUffici chiusi e studenti in casa hanno generato un aumento stellare del consumo di banda a ogni latitudine. Abbiamo fatto i conti per trovare il corrispettivo delle emissioni “da web” causato dal lockdown globale, con risultati preoccupanti
La quarantena ha avuto un impatto molto significativo sulle nostre vite, e anche sul tempo che passiamo connessi: ma quali ricadute ha tutto questo sull’ambiente? È lecito domandarsi se lo spostamento verso lo smart working – o sarebbe più corretto dire lavoro a distanza – possa tramutarsi in una bomba ecologica.
Wired ha provato a fare i conti con il supporto di Rete Clima, ente no-profit che si occupa di sostenibilità, calcolando l’impatto in termini di CO2 delle attività più diffuse sul web in questo periodo. “Da una ricerca in letteratura tecnica abbiamo identificato i costi energetici ed ambientali legati alla trasmissione dei dati tramite le infrastrutture web. A livello globale, in media, ogni Gb trasferito consuma 0,06 kWh pari, in Italia, ad una emissione di 21,3 grammi di CO2 in atmosfera” afferma Paolo Viganò, Carbon e Csr Manager della ong.
I server necessari a processare le informazioni e trasferirle e gli impianti di raffreddamento necessari a garantire il funzionamento delle infrastrutture sono solo alcuni dei fattori che compongono la cifra: a questi valori si sommano, dal lato utente, i consumi dell’hardware domestico, delle schede grafiche potenziate alle Cpu da gaming.
Dopo tre mesi di osservazioni, la risposta alla domanda iniziale è che il temuto impatto del lavoro da remoto non c’è stato. La conferma arriva da Fastweb, Tim e Vodafone, che Wired ha contattato nelle scorse settimane. Quello che conta davvero sono le applicazioni sociali e l’entertainment: dalle videocall agli aperitivi virtuali, dai film in streaming agli incontri di calcio rivisti per passare il tempo.
Fare un po’ di chiarezza può aiutare: se le nuove modalità aiutano la decarbonizzazione del lavoro, evidentemente non si tratta di soluzioni a emissioni zero.
Il problema sono le videochiamate
“La quarantena ha mostrato abbastanza chiaramente che un’economia con più smart working sarebbe preferibile, dal punto vista ambientale, a un sistema basato esclusivamente sulla mobilità” riprende Viganò.
Tuttavia con una rapida indagine sulle abitudini durante il lockdown si scopre che, se un lavoratore in ufficio consuma circa 1 g di CO2 (corrispondenti a circa 50 megabyte di traffico web) in una giornata lavorativa tipo rispetto alla sola trasmissione dei dati, un collega in smart working consuma circa 2 g di CO2 (l’equivalente di circa 110 megabyte). La differenza è dovuta alle videochiamate. Assenti in ufficio, in realtà richiedono poco tempo anche quando si resta a casa. Per arrivare al risultato, abbiamo considerato la routine di un impiegato medio (escludendo le figure commerciali, che fanno storia a sé): due videocall di coordinamento su Skype da 20 minuti l’una, con 5 partecipanti e in qualità media, una all’inizio e una alla fine della giornata (il resto del tempo si dovrà pur lavorare, no?).
Il fattore e-learning
A impattare davvero sull’ambiente, sorpresa, parrebbero essere gli studenti. Le lezioni in streaming sono diventate una necessità: un’ora di connessione di gruppo su Zoom in media qualità costerebbe, secondo i calcoli, 810 megabyte, pari a circa 17 grammi di anidride carbonica. Questo numero va, ovviamente, moltiplicato per le ore di lezione di tutte le classi italiane.
Il ruolo chiave dell’entertainment
E poi c’è tutto il resto. Dopo i compiti, i ragazzi (e non solo) accendono computer e console. Oggi si gioca sempre più spesso online, e l’ultimo aggiornamento di Fortnite – scaricato da migliaia di teenager e non solo – pesava la bellezza 25 gigabyte (cioè oltre mezzo chilo di CO2). Abbastanza per creare qualche problema alla rete a inizio marzo.
Ma la pandemia ha solo accentuato una tendenza già in atto. Secondo i dati di Google, il gaming pre-Covid consumava mediamente circa 75 miliardi di kilowattora all’anno, come 25 centrali elettriche standard (cioè da 500 megawatt). Essere gamer performanti richiede schede grafiche avanzate. Inoltre, un pc utilizzato per la navigazione viaggia a circa l’1% della capacità di calcolo: durante le sessioni di gioco, le macchine lavorano al massimo dei giri molto più a lungo. Anche in questo caso, i consumi aumentano con la modalità multiplayer.
Cinema, serie tv e frigoriferi accesi
Chi con i videogiochi ha smesso (o non ha mai cominciato) non è al riparo. In un’intervista a Italia Oggi rilasciata a inizio marzo, l’ad di Chili Giorgio Tacchia dichiarava che l’utilizzo del servizio era raddoppiato rispetto al periodo pre-coronavirus. Netflix, contattata da Wired, ha preferito non rilasciare dichiarazioni al riguardo: ma basta una rapida indagine tra amici e parenti per capire se (e quanto) i consumi sono cresciuti. E poi c’è, naturalmente, il porno, che già in tempi meno costretti agli spazi domestici costituiva il 27% del traffico video totale: secondo le statistiche fornite da PornHub, durante la pandemia il consumo è aumentato in media di circa il 15% a livello mondiale.
Il futuro, ormai è chiaro, è sempre più visivo. Una ricerca pubblicata dal The Shift Project prima dell’epidemia calcolava che, entro il 2022, l’80% del traffico dati sulle reti sarà dovuto ai video online. Non solo: di questo passo, prosegue lo studio, il digitale potrebbe contare il 7% delle emissioni mondiali di anidride carbonica entro il 2025: più o meno quanto tutte le automobili in circolazione oggi. E se aumentano gli utenti, aumenta anche, nel contempo, la qualità dei contenuti. Dieci ore ad alta definizione, spiegano gli esperti, contengono più dati di tutti gli articoli di Wikipedia in inglese in formato testuale. E, secondo una ricerca di Cisco, un’ora di streaming a settimana consuma, nell’arco di un anno, la stessa quantità di energia di due frigoriferi lasciati accesi nello stesso lasso di tempo.
Lo streaming video nel 2018 ha generato 300 milioni di tonnellate di CO2, una quantità vicina a quella prodotta dall’intera Spagna, mentre i servizi on demand (come Netflix e Amazon Prime) hanno prodotto 100 milioni di tonnellate di CO2, l’equivalente dell’intero Cile. E dal computo sono escluse videoconfererenze e applicazioni ultra-innovative, come la telemedicina.
Alla ricerca di una sobrietà digitale
Nel mare di dati, l’unica soluzione per non navigare verso un altro iceberg ecologico – sostiene il think tank francese – è diventare “digitalmente sobri”, espressione che riconduce all’abuso di alcol. Un concetto reso efficacemente col il termine inglese overconsumption. Più facile a dirsi che a farsi, in un ambito in cui l’impalpabilità dei costi ambientali per l’uomo comune rappresenta l’ostacolo più grande.
Ma esistono azioni che, una volta diventate abituali, possono fare la differenza. E se i consumatori possono scegliere di diminuire l’impatto ambientale limitando le ore di video streaming e usando i servizi alla minima risoluzione disponibile, il report ha qualche suggerimento anche per i giganti del web: disattivare la modalità autoplay, ad esempio, e consentire l’ascolto di musica anche senza immagini per contribuire a ridurre le emissioni. Per rendere chiaro l’impatto agli scettici, un video esplicativo e un’estensione per Firefox aiutano a visualizzarlo.
Un quadro allarmante, insoma. Forse, dopo la sbornia digitale, è arrivato il momento dell’hangover? Nonostante tutto, Viganò non ne è convinto. “Il mondo digitale” – chiosa – “permette sicuramente una importante riduzione delle emissioni di gas serra in relazione alla dematerializzazione dell’informazione, alla riduzione della mobilità e altri aspetti”. L’importante, come in tutte le cose, “è non abusarne”.