Covid: sulla letalità c'è ancora una guerra di cifre
by Simone ValesiniIl calcolo dell’infection fatality rate si sta rivelando uno degli aspetti più controversi di questa pandemia. Tra risse scientifiche, modelli, analisi sierologiche, le cifre proposte sono ancora molto distanti, e in attesa di dati certi non resta che decidere di chi fidarsi
Mentre il mondo fatica a venire a patti con le limitazioni imposte dai lockdown e dalle fasi 2, la lotta contro l’epidemia inizia ad entrare di prepotenza nell’agone politico. È così negli Usa, il paese che sta registrando più morti in questa pandemia, dove le opinioni su Covid-19 si stanno facendo sempre più divisive: da un lato la destra trumpiana, che tende a ridimensionare i rischi epidemici per evitare scelte impopolari e compiacere le tendenze anarcoidi dell’elettorato repubblicano; dall’altro i democratici, tendenzialmente più tolleranti verso il bene comune, e più sensibili ai pericoli di una malattia che America (molto più che in paesi come il nostro) finisce per colpire di preferenza le fasce più deboli della popolazione. Il risultato è una polarizzazione delle opinioni che inizia a farsi sentire anche in ambito scientifico. Un buon esempio è il calcolo della letalità di Covid 19: gli studi sierologici in corso un po’ in tutto il mondo stanno infatti fornendo i primi dati sulla reale diffusione del virus, con i quali presto dovremmo essere in grado di rivedere le stime iniziali sulla letalità, per forza di cose destinate a sovrastimare (o sottostimare) la pericolosità della malattia. Ma in attesa di risultati affidabili, le polemiche al momento sono all’ordine del giorno.
Cfr e Ifr
Il concetto generale probabilmente è ormai chiaro a tutti. La letalità di una malattia (in inglese Case Fatality Ratio, o Cfr) nel corso di un’epidemia viene calcolata di norma come rapporto tra morti e casi accertati. Ovviamente come indicatore ha diversi limiti, non ultimo quello di basarsi su dati per forza di cose parziali: i casi accertati di malattia non possono mai raggiungere il 100% di quelli reali. Specie nel caso di una malattia come Covid, che risulta asintomatica in un’ampia percentuale dei pazienti (esattamente quanto è ancora in discussione) e in molti casi produce comunque sintomatologie leggere, facili da confondere con altri acciacchi stagionali come influenze o raffreddori.
Un metodo più efficace per valutare il rischio rappresentato dal virus è il cosiddetto Infection Fatality Rate (o Ifr), ovvero il rapporto tra decessi e infezioni totali. Un parametro che risulta necessariamente più basso del precedente (o anche più alto, a dire il vero, se i morti si rivelassero più di quelli noti), e fornisce una stima concreta del numero di persone che rischiano di morire nel corso di un’epidemia. Ma che al tempo stesso rappresenta un indice ideale, in quanto è impossibile sapere realmente quante persone sono state infettate in un’epidemia, a meno di disporre di un test diagnostico accurato al 100% e di sottoporre all’analisi l’intera popolazione in oggetto.
Se all’inizio di una nuova epidemia l’unico dato disponibile è il Cfr, col passare delle settimane, e dei mesi, è normale rivedere le stime al ribasso, quando si inizia ad avere qualche dato affidabile su cui basare le stime dell’Ifr. Nel nostro caso, lo strumento principe sono le indagini di sieroprevalenza, come quella lanciata dal ministero della Salute proprio in questi giorni: studiando la diffusione degli anticorpi specifici contro Covid-19 nella popolazione è possibile estrapolare la percentuale di persone che dovrebbe aver contratto la malattia, compresi i casi non intercettati dal sistema sanitario. E affinare di conseguenza il calcolo della letalità. Non tutti gli studi di sieroprevalenza, però, nascono uguali: un conto è un’indagine, come quella che stiamo portando avanti in questi giorni, pensata per reclutare partecipanti statisticamente rappresentativi dell’intera popolazione. Ben diverso ovviamente è se i test vengono eseguiti su una coorte non selezionata per fini statistici, come è capitato nella maggior parte degli studi disponibili fino a oggi, i cui risultati sono quindi più difficili da estendere all’intera popolazione.
Ioannidis al centro delle polemiche
Tra gli scienziati che guardano con maggiore interesse ai risultati degli studi di sieroprevalenza c’è senz’altro John Ioannidis, epidemiologo ed esperto di data science biomedica di Stanford che in un’intervista di qualche tempo fa ci aveva raccontato i suoi dubbi sull’affidabilità dei dati disponibili su Covid-19: pochi, eterogenei, inaffidabili, troppo poco insomma per poter pianificare le prossime fasi di questa epidemia senza correre il pericolo di fare danni peggiori di quelli causati dal virus. Il rischio – scriveva Ioannidis in un articolo pubblicato a marzo su Statnews – è di “fare la fine di un elefante, che per sfuggire a un topolino finisce per precipitare in un burrone”. È evidente che il professore di Stanford ritiene eccessive le misure prese negli ultimi mesi, e in assenza di dati affidabili con cui valutarne rischi e benefici, ultimamente ha deciso di prendere la questione di petto, procurandoseli da se. Con il suo team di ricerca ha organizzato uno studio di sieroprevalenza incentrato nella contea di Santa Clara, in California, per verificare la prevalenza delle infezioni, compararla con le diagnosi ufficiali, e calcolare di conseguenza con più precisione l’ifr di Covid nell’area.
Covid a Santa Clara
I ricercatori hanno reclutato 3.300 persone su Facebook, eseguito i test e aggiustato i risultati per rendere conto delle caratteristiche demografiche dell’area, della sensibilità e specificità del test utilizzato, e di altri potenziali elementi confondenti. Arrivando così a stimare una prevalenza del 2,8% nella popolazione di Santa Clara: 54mila persone già entrate in contatto con il virus, contro i 956 casi accertati al momento in cui è stato svolto lo studio. A questo punto, i ricercatori passano a calcolare l’Ifr di Covid nella zona: i morti accertati (sempre al momento in cui è stato realizzato lo studio) erano 94, per un Infection Fatality Rate che raggiunge appena lo 0,17%. Risultati estremamente incoraggianti quindi, che parlano di una malattia tutto sommato gestibile, al di fuori dei grandi focolai epidemici come quello di New York, o come il nostro in Lombardia. Sempre ovviamente che risultino affidabili, cosa su cui in molti, almeno tra gli esperti americani, sembrano avere diversi dubbi.
Le ricerche continuano
Ioannidis comunque è convinto di essere sulla strada giusta. Dopo aver pubblicato in preprint i risultati dello studio su Santa Clara, ha infatti eseguito anche una sorta di revisione delle ricerche dello stesso tipo effettuate dall’inizio dell’epidemia, anche questa pubblicata per ora senza revisione dei pari (e quindi da prendere con le pinze in attesa di una pubblicazione formale su una rivista scientifica). Basandosi su una serie di parametri (dimensione minima del campione, popolazione studiata, ecc…) ha selezionato 12 ricerche provenienti da tutto il mondo, cercato di rendere conto statisticamente delle differenze di rappresentatività dei campioni analizzati, e calcolato quindi l’Ifr al momento in cui erano stati effettuati gli studi. Anche in questo caso, pur con ampia variabilità, i risultati sono molto inferiori all’Cfr calcolato sui contagi ufficiali: si va da uno 0,02% registrato a Kobe, in Giappone, allo 0,04% di uno studio francese, per arrivare ad un massimo di 0,5% emerso da una ricerca effettuata a Ginevra.
Per Ioannidis si tratterebbe di ottime notizie: la letalità media di Covid sarebbe in linea con quella di una brutta stagione influenzale (circa 0,1-0,2%). E questo pur non cambiando poi molto rispetto alla pericolosità di una pandemia che ha già ucciso oltre 350mila persone in tutto il mondo, può essere utilissimo nella scelta delle prossime mosse con cui affrontarla. Covid-19, secondo Ioannidis, uccide molto in determinati setting (case di cura, grandi focolai epidemici in cui gli ospedali vanno in tilt, zone con ampie popolazioni di persone fragili e anziane), e molto meno in altri, ed è quindi auspicabile studiare a fondo le variabili che influenzano la sua letalità, per evitare di ripetere lockdown totali come quelli degli scorsi mesi, e identificare invece strategie mirate a proteggere solamente le fasce a rischio della popolazione.
Una pioggia di critiche
I risultati del team di Stanford, lo dicevamo, non sono stati accolti con particolare favore dalla comunità scientifica americana. E se i media legati al Partito repubblicano li hanno utilizzati per sminuire il pericolo rappresentato da Covid e premere per la sospensione dei lockdown, quelli di area democratica li hanno invece demoliti passando, in breve tempo, da accuse di scarso rigore scientifico a quelle di truffa vera e propria. Tralasciando le critiche tecniche, materia per specialisti, vale la pena citare lo scoop (o presunto tale) pubblicato da Buzzfeed il 15 maggio. Citando le informazioni riservate ottenute da un whistleblower, l’articolo parla di decine di email scambiate tra i ricercatori e il patron della JetBlue Airways, David Neeleman, riguardo ai risultati dello studio di Santa Clara.
Una ricerca che il magnate avrebbe finanziato con cinquemila dollari, e poi sfruttato per portare acqua al suo mulino, avendo tutto l’interesse a una rapida conclusione dei lockdown visto il suo impegno nell’aviazione civile. Ioannidis e colleghi hanno respinto le accuse, ricordando che Stanford ha un ufficio che raccoglie donazioni che vengono poi distribuite, in forma anonima, ai ricercatori dell’università. E assicurando di non aver ricevuto pressioni da parte di Neeleman su come condurre la ricerca. Ovviamente è difficile sapere chi abbia ragione. Ma quel che è certo, a giudicare dal tenore delle polemiche, è che l’atmosfera in America non è delle migliori. E che le ricerche indirizzate a comprendere meglio la diffusione e letalità di Sars-Cov-2 al momento sono ancora un argomento estremamente divisivo.
Cosa dicono gli altri studi?
Riguardo al Cfr di Covid 19 negli scorsi mesi abbiamo visto un po’ di tutto. Le stime iniziali dell’Oms parlavano di una letalità (media) pari al 3,4%. L’Imperial College, i cui rapporti hanno avuto un’importanza fondamentale nel convincere paesi come il Regno Unito e gli Usa a implementare il lockdown, ha stimato inizialmente l’Ifr di Covid intorno allo 0,9%, per scendere poi allo 0,6% (dato utilizzato anche nei modelli del nostro comitato tecnico scientifico). Abbastanza per ipotizzare centinaia di migliaia di morti in Italia in assenza di energiche misure di contenimento. È importante considerare che in una situazione del genere anche un singolo decimale può cambiare radicalmente lo scenario: facendo un calcolo molto rozzo sulla popolazione italiana, nel caso di un contagio a tappeto con una letalità dello 0,6% vedremmo 360mila morti, scendendo allo 0,4% i morti diventano 240mila, con lo 0,2% arriviamo a 120mila. Tanti, troppi, ovviamente. Ma è innegabile che c’è una bella differenza. In questo caso comunque parliamo di calcoli teorici, effettuati con modelli epidemiologici.
Uno dei tentativi più approfonditi di mettere ordine nella miriade di ricerche sul campo effettuate negli ultimi mesi è quello di Gideon Meyerowitz-Katz e Lea Merone, due epidemiologi australiani affiliati, rispettivamente, alla University of Wollongong e alla James Cook University. La loro ricerca, anche in questo caso in preprint, è una review sistematica della letteratura scientifica sull’argomento, che ha analizzato 25 indagini sierologiche realizzate negli ultimi mesi. L’Infection Fatality Rate di Covid-19, calcolata facendo la media pesata tra quelle descritte negli studi analizzati, è risultata pari a 0,64%. I due autori però sottolineano che i risultati delle ricerche analizzati sono molto eterogenei, e che quindi la stima da loro effettuata dovrebbe essere considerata un’ipotesi più che una certezza. È probabile – scrivono – che l’eterogeneità dei risultati sia legata almeno in parte alle differenti capacità di risposta dei paesi a questa malattia, e anche alle caratteristiche demografiche di ogni nazione.
A tre mesi dall’inizio della pandemia, insomma, su Covid ci sono ancora più misteri che certezze. Se tutto andrà come sperato dovremmo presto avere dei dati concreti sulla diffusione dei contagi nel nostro paese, con cui calcolare anche con precisione la letalità del virus. Tornando all’America per ora i Cdc hanno sembrano aver preso in parola Ioannidis, stabilendo una letalità dello 0,4% per i pazienti sintomatici, e sottolineando al contempo che esiste una quota di pazienti che non sviluppa i sintomi, destinata evidentemente ad abbassare ulteriormente l’Infection Fatality Rate della malattia. Che si tratti però di una reale convinzione scientifica, o piuttosto magari del risultato di pressioni da parte dell’amministrazione Trump, al momento, purtroppo, è impossibile da stabilire.