LETTURE/ Evelyn Waugh ed “Elena”: solo un evento cambia l’uomo nel profondo

Quest’anno ricorrono i 70 anni dalla prima pubblicazione di “Elena”, il romanzo di Evelyn Waugh sulla madre dell’imperatore Costantino

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Cosa può aver lasciato come proprio testamento letterario uno scrittore che ha costruito buona parte della personale carriera letteraria sulla letteratura da viaggio e che muore la domenica di Pasqua di ritorno dalla Messa?

Stiamo parlando di Evelyn Waugh, nato a Londra nel 1903 e morto a Taunton (Inghilterra sud-occidentale) nel 1966: nella Oxford del 1930 si era convertito dall’agnosticismo al cattolicesimo, pare in seguito alla delusione causata dal tradimento della moglie, che lo lasciò per un amico comune dopo appena un anno di matrimonio. Ottenuto l’annullamento da Roma, nel 1937 Waugh sposò una cattolica di antica tradizione familiare, dalla quale avrebbe avuto sette figli. Instancabile viaggiatore (soprattutto in Africa), fu volontario nei Royal Marines e capitano nelle Royal Horse Guards durante la seconda guerra mondiale. Nel 1945 venne ricevuto in Vaticano da papa Pio XII e nel 1946 si recò a Hollywood.

Quest’anno ricorrono i settant’anni dalla prima pubblicazione del suo Elena (1950), il romanzo sulla madre dell’imperatore Costantino, che si mise alla ricerca della vera croce di Cristo. Se confrontato con molti modelli letterari dei “Roaring Twenties” e dei lunghi anni Trenta che furono gli anni della formazione dell’autore, Elena appare sicuramente come un romanzo fuori dal coro. Per aver detto che il cambiamento della vita non è innanzitutto una questione psicologica, ma la conseguenza dell’imbattersi in un evento, Waugh si poneva infatti in alternativa a quello che considerava lo sperimentalismo psicologico di alcuni suoi illustri contemporanei, come Virginia Woolf e James Joyce. Da altri, invece, come Thomas Stearns Eliot, prese la teoria del romanzo come forma d’arte oggettiva.

Proprio per questo, Elena dovrebbe essere letto alla luce del poco precedente Ritorno a Brideshead: grande affresco nostalgico in parte autobiografico, dove l’autore ripercorre la vicenda che, negli anni Trenta, ha portato il protagonista Charles Ryder a legarsi alla famiglia cattolica dei Flyte, frequentando la loro villa a Brideshead nella campagna inglese. E, al termine del quale, Julia Flyte si rivolge a Charles, giustificando la propria impossibilità a sposarlo: in quanto egli non è cattolico e “iniziare una vita con te” significherebbe perdere la misericordia di Dio.

Eppure Charles aveva intrapreso, anche se tardi, la sua personale corsa contro il tempo per recuperare il “terreno religioso” che lo separava dalla futura moglie: da ateo, pregando Dio che l’anziano e miscredente padre di Julia non rifiutasse i sacramenti portatigli sul letto di morte.

Qualcosa non torna, nelle pagine di colui che Graham Greene definì “il più grande romanziere della nostra generazione”. Almeno agli occhi di una ragione troppo analitica, che vorrebbe che un ateo come Charles non possa pregare o che Julia, dopo aver divorziato dal precedente marito per sposare Charles, debba compiere il passo decisivo verso di lui. C’è stata invece, nella prima metà del secolo scorso, una letteratura che ha avuto il suo leitmotiv nella decisione per il cambiamento dell’esistenza.

È in fondo quello che, in Elena, la protagonista dice ai tre monaci cristiani nel santuario della Natività a Gerusalemme: “Siete i miei patroni speciali, e patroni di tutti quelli che arrivano tardi, di tutti quelli che per giungere alla verità devono fare un viaggio noioso, di tutti quelli che hanno la testa confusa da cognizioni ed elucubrazioni, di quelli che per mostrarsi beneducati si fanno complici della colpa”.