Didattica a distanza e smartworking, il Garante avverte: «Rafforzate la privacy»

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Sapete quali app hanno accesso ai vostri dati Facebook?
Per scoprirlo, accedete alla pagina del vostro account nella sezione ipostazioni. A questo punto, in basso a sinistra troverete app. Nella schermata che si apre si possono visualizzare tutte le app che accedono ai dati Facebook, rimuoverle o modificare l'accesso ai dati.
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Controllate chi visualizza le vostre condivisioni?
Ogni volta che postiamo qualcosa rendiamo i nostri contenuti visibili a gruppi di persone selezionati in base alle nostre impostazioni. Per verificarlo, accedete alla vostra sezione privacy.
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Permettete a Facebook di utilizzare il riconoscimento facciale?
Questa funzione sarà ufficialmente usata da Facebook per suggerire il vostro tag alle persone che pubblicano immagini che vi ritraggono. Potrà essere disabilitata dalla sezione Privacy non appena applicata anche in Italia.
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Cancellate regolarmente la cronologia da Google?
Google memorizza le tue ricerche per profilare i tuoi gusti e inviarti pubblicità aderenti alle tue preferenze, anche su Facebook. Cancellarla costantemente è una buona abitudine che protegge la nostra privacy.
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Permettete a Google di salvare le vostre localizzazioni?
Google memorizza i vostri spostamenti, i luoghi nei quali vi registrate e molte altre informazioni. Per sfuggire a questa mappatura è necessario accedere al proprio account Google nella sezione aiuto e seguire le istruzioni per disattivare la cronologia di localizzazione nella sezione aiuto.
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Permetti a Google di profilare i tuoi dati per le pubblicità?
C'è una funzione di Google che ci mette al riparo dalle sue profilazioni a scopi commerciali. Per usarla, entrare nella sezione Personalizzazione degli annunci e disattivarla.
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Avete attivato la funzione "non tenere traccia" su Chrome?
Seguite questa guida per disattivare il monitoraggio della vostra navigazione da parte di altri siti web.
State salvaguardando la vostra privacy online?

Giuseppe Busia, il Segretario generale dell’Autorità Garante della Privacy, ci ha messo in guardia: «Non sottovalutiamo i rischi legati alla diffusione sul web di tantissimi dati personali»

Lo smart working e la didattica a distanza hanno allargato le nostre opportunità e ci hanno consentito di continuare a fare, anche nel pieno di una pandemia, molte cose che prima facevamo solo «in presenza». Ma siamo sicuri che queste nuove possibilità non abbiano messo a repentaglio la nostra privacy? In questa intervista esclusiva abbiamo fatto il punto con Giuseppe Busia, Segretario generale dell’Autorità Garante della Privacy, che ci ha messo in guardia: «Non sottovalutiamo i rischi legati alla diffusione sul web di tantissimi dati personali».

E a proposito del diritto alla disconnessione e dell’obbligo di tenere telecamere e microfoni sempre accesi ha aggiunto: «Stiamo svolgendo un’attenta valutazione per evitare ogni uso improprio di questa nuova modalità di lavoro».

Da settimane 8 milioni di studenti e 800mila insegnanti sono impegnati nella didattica a distanza. Varie piattaforme o servizi on line consentendo la configurazione di «classi virtuali», la pubblicazione di materiali didattici, la trasmissione e lo svolgimento on line di video-lezioni, l’assegnazione di compiti, la valutazione dell’apprendimento e il dialogo in modo «social» tra docenti, studenti e famiglie.

La nostra privacy è minacciata?
«Dobbiamo essere grati ai tanti dirigenti scolastici e docenti che, con il fondamentale contributo di studenti e famiglie, hanno saputo affrontare questa sfida difficilissima e mantenere vivo e vitale uno degli ambiti più importanti e strategici del nostro Paese. Questo, tuttavia, non può far dimenticare che l’uso delle piattaforme per la didattica a distanza espone a rischi legati all’uso di tantissimi dati personali anche di soggetti particolarmente vulnerabili, quali i minori».

A chi tocca il compito di tutelare questi dati?
«Alle scuole spetta il compito e la responsabilità di organizzare la propria attività tramite le reti, in modo da proteggere i dati degli alunni, degli studenti, dei docenti e di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nell’attività di insegnamento a distanza. Le scuole, perciò, dovrebbero guardare alla protezione dati non già come ad un adempimento burocratico al quale adeguarsi per evitare una sanzione, ma dovrebbero dedicare al tema della privacy una specifica riflessione. Per ora, però, molti istituti si sono attivati in maniera frettolosa e talvolta superficiale. Alcuni istituti non hanno nemmeno attivato delle piattaforme. Soprattutto alle scuole dell’infanzia e agli asili nidi: qui talvolta le educatrici inviano, dal proprio cellulare personale e verso le chat di classe su whatsapp, foto e video che le ritraggono in momenti di gioco, canto o mentre “dialogano” a distanza con i bambini più piccoli».

Non è rischioso?
«Sì, certamente. L’immediatezza con la quale ciascuno è in grado di raccogliere e trasmettere immagini o video a volte fa dimenticare i rischi che queste pratiche possono comportare. Invece occorrerebbe prestare sempre una particolare attenzione prima di mandare tali contenuti attraverso messaggi o chat e anche prima di caricarli sui social network. Molto spesso, dopo il primo invio, che sia ad un amico o a un conoscente, c’è qualcuno che li gira ad altri destinatari (singoli o gruppi). Si origina così una trasmissione incontrollata che può portare a situazioni spiacevoli, o a delle vere violazioni, che sono poi sanzionate della normativa sulla protezione dei dati personali».

Spesso anche genitori condividono sulle chat o sui social foto e video dei propri figli…
«È così: purtroppo molto spesso sono le mamme e i papà a compiere leggerezze che possono comportare danni rilevanti per i propri figli o per i loro compagni di classe. Mentre la semplice ripresa della recita o del saggio di fine anno del proprio figlio rientra nei trattamenti che è possibile svolgere per fini personali, per diffondere i contenuti sul web o tramite i social network occorre accertarsi di avere il consenso di tutti i genitori dei bambini coinvolti. In ogni caso, bisogna sempre tenere presente che anche la fotografia più innocente del proprio figlio o dei suoi compagni, una volta diffusa sulla rete, rischia di essere oggetto di attenzione da parte di soggetti malintenzionati, che possono distorcerne senso e contenuti, fino a provocare danni seri a tutte le persone coinvolte».

In Italia forse manca l’educazione all’uso consapevole delle tecnologie…
«Nell’ambito dei saperi che la scuola dovrebbe trasmettere c’è oggi anche l’educazione all’uso consapevole delle tecnologie, affinchè i giovani imparino a servirsene in modo consapevole e non ne divengano oggetto. Imparare a proteggere i propri dati personali aiuta ciascuno a controllare le informazioni che lo riguardano, salvaguardando la propria identità e, così, la propria dignità e libertà».

Veniamo ora allo smartworking: anche questa possibilità sta facendo emergere alcuni interrogativi sulla liceità di certe misure. In seguito al lockdown, misura necessaria per contrastare la diffusione del Coronavirus, molto lavoratori hanno iniziato a lavorare in modalità smartworking, utilizzando la propria strumentazione (pc e cellulari), perché le aziende erano impreparate. Al alcuni di loro, inoltre, è stato imposto di tenere sempre accesa telecamera o i microfoni.

Cosa ne pensate?
«L’emergenza sanitaria ha dato un forte impulso al processo di digitalizzazione e al ricorso allo smartworking, ma ha anche catapultato una quota significativa dei lavoratori e dei datori di lavoro in una dimensione delle cui implicazioni non sempre si ha la piena consapevolezza. Le problematiche che il ricorso al lavoro agile pone riguardo ai diritti dei lavoratori e alla loro riservatezza sono estremamente rilevanti, ed il Garante sta svolgendo un’attenta valutazione su di esse. A partire dai rischi di un eventuale controllo a distanza, dall’obbligo di adottare adeguate misure di sicurezza dei dispostivi usati dai dipendenti, dal diritto alla disconnessione del lavoratore. Occorre evitare ogni uso improprio di questa nuova modalità di lavoro. Come ha recentemente ricordato anche il Presidente del Garante, Antonello Soro, non sarebbe legittimo fornire per lo smart working un computer dotato di funzionalità che consentano al datore di lavoro di esercitare un monitoraggio sistematico e pervasivo dell’attività compiuta dal dipendente tramite questo dispositivo».

E dei test sierologici sul posto di lavoro cosa ne pensate?
«Pochi giorni fa abbiamo chiarito che il datore di lavoro non può effettuare direttamente esami diagnostici sui dipendenti. Questa richiesta deve essere disposta dal medico competente o da altro professionista sanitario in base alle norme relative all’emergenza epidemiologica. Nella nota abbiamo anche specificato che la partecipazione agli screening sierologici nei confronti di particolari categorie di lavoratori a rischio di contagio, come operatori sanitari e forze dell’ordine, può avvenire solo su base volontaria».