Coronavirus e test sierologici, l’immunologo Mantovani: «Ecco perché non dicono se siamo protetti e per quanto»
Secondo l’immunologo Mantovani non sappiamo se la presenza di una certa quantità di anticorpi assicura protezione contro l’infezione. Lo studio epidemiologico su 4000 dipendenti Humanitas rivela che il 13% ha contratto il virus
by Cristina MarroneDalla Sardegna al Trentino Alto Adige chiedono la patente di immunità per i turisti. Ma ha senso fare i test sierologici ai visitatori per capire se hanno sviluppato immunità a Covid-19?
«Lo ripeto da tempo e lo sostiene anche l’Organizzazione mondiale della Sanità: questi test per la ricerca di anticorpi per Sars-CoV 2 sono uno strumento prezioso per valutare la prevalenza e la diffusione del virus e in alcune condizioni cliniche, ma non danno una patente di immunità. Sul singolo a oggi ancora non sappiamo se la presenza di una certa quantità di anticorpi è la spia di una risposta immunitaria che assicura protezione contro l’infezione».
I test sierologici in circolo sono affidabili?
«Lo Stato e la Regione Lombardia hanno scelto due test a mio avviso validi. Ricordiamoci che per i sierologici sulle malattie infettive sono richiesti alti livelli di specificità e sensibilità (oltre 97%) per evitare il più possibile i falsi positivi e i falsi negativi. Oggi sono in commercio un centinaio di test, ma molti, forse la maggioranza non sono stati validati in modo rigoroso. Il governo britannico ne ha acquistato e buttato via 35 milioni rivelatisi inaffidabili. Indipendentemente dalla qualità del test una persona con la presunzione di essere immune può essere indotta decidere di non usare la mascherina o di non rispettare il distanziamento sociale: invece potrebbe ammalarsi e comunque portare in giro il virus».
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Come mai ancora oggi non ci sono evidenze sull’efficacia dell’immunità data dagli anticorpi?
«Questo virus non ha studiato sui libri di immunologia e si comporta in modo diverso da quanto siamo abituati a vedere. Nella risposta immunitaria classica prima arrivano gli anticorpi di classe IgM e poi a distanza di giorni quelli di classe IgG, che in genere sono neutralizzanti. Ma il nuovo coronavirus segue strade diverse, a volte le due immunoglobuline compaiono insieme o invertite. E quando ci sono gli anticorpi IgG è possibile che il virus sia ancora presente ed è per questo che serve il tampone per escluderlo».
Quindi chi è guarito da Covid-19 non lo è per sempre?
«Per chi ha davvero sviluppato la malattia possiamo ragionevolmente pensare che per un certo periodo resterà protetto da Sars-CoV-2. La Sars dava ai guariti un’immunità di 2-3 anni e questo virus gli è parente. Il problema è che la stragrande maggioranza delle persone che incontra Covid-19 o non si ammala o lo fa in modo blando: in questo caso non sappiamo se la risposta immunitaria indotta, di cui la presenza di anticorpi è una spia, sia davvero protettiva o se queste persone rischiano una nuova infezione».
Quali sono gli scenari dopo un test sierologico?
«Possono succedere tre cose: il test sierologico è negativo, ma in realtà il soggetto potrebbe avere il virus perché in questa infezione la risposta immunitaria può comparire fino a distanza di 15 giorni-20 giorni dall’esposizione. Quindi questa persona potrebbe essere in realtà contagiosa senza saperlo. Se il test sierologico è positivo le opzioni sono due: la persona ha incontrato il virus e il suo sistema immunitario lo ha eliminato oppure, pur avendo gli anticorpi, il virus è ancora presente, la battaglia ancora in corso e questo lo può scoprire solo il tampone».
Con tante incertezze a che cosa servono questi test?
«Sono utili alle indagini epidemiologiche come ad esempio quella che abbiamo concluso in Humanitas e resa disponibile alla comunità scientifica,la prima su vasta scala in Italia, guidata dalla Professoressa Maria Rescigno. Abbiamo testato 3985 tra medici, infermieri, staff amministrativo anche in smart working , ricercatori, nelle varie strutture Humanitas sul territorio lombardo.È emerso che 11- 13% del personale è venuto in contatto con il coronavirus, senza sostanziali differenze tra le categorie: il personale sanitario, potenzialmente esposto, rispetto la resto della popolazione. Ne emerge che l’ospedale, se ben protetto può essere un luogo sicuro per i pazienti e per chi lavora, per questo invito i 10 milioni di italiani che hanno malattie diverse come un tumore a tornare in ospedale per farsi curare. I dati evidenziano inoltre come la prevalenza di positivi per anticorpi tra il personale delle diverse strutture sia in linea con la situazione del territorio di appartenenza: dal 3% di Humanitas Medical Care di Varese al 35- 43% di Humanitas a Bergamo, la zona più colpita in Italia».
In questi giorni si sta parlando di virus attenuato, lei che ne pensa?
«In banca dati ci sono cinquemila sequenze genetiche e nessuna indica che il virus si sia attenuato. Ne ragioneremo quando qualcuno porterà le prove sulle riviste scientifiche autorevoli. È vero che i pazienti sono molto meno gravi,ma i motivi possono essere molti: l’esperienza clinica passata, abbiamo imparato a conoscere la malattia; il virus ha colpito inizialmente le persone più deboli, molte delle quali non ce l’hanno fatta; oggi ci comportiamo meglio e in questo modo anche i più fragili sono più protetti; infine le malattie causate dai virus respiratori si attenuano con la primavera e l’estate perché stiamo di più all’aperto e in casa teniamo le finestre aperte e la quantità dell’esposizione al virus cambia. A breve sarà pubblicato uno studio finanziato dalla Fondazione Cariplo che ha sequenziato 350 ceppi virali in Lombardia. Aspettiamo di capire che cosa ci dirà».
Ha risposto Alberto Mantovani, 71 anni, un immunologo di fama internazionale. È il direttore scientifico dell’Humanitas di Rozzano, Professore Emerito all’Humanitas University