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Marco Barbone durante il processo

«Walter Tobagi fece due passi e cadde, poi la pistola si inceppò». Quei cani sciolti che lo rincorsero (e poi crollarono)

I verbali della confessione. Marco Barbone aveva 22 anni quando decise di creare la Brigata 28 marzo, in memoria dei terroristi uccisi nel covo di via Fracchia a Genova. «Volevamo colpire i giornalisti più intelligenti, che non avevano l’intento di insultare o aizzare»

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«Aspettammo circa 35-40 minuti, dopodiché ci accorgemmo che Tobagi usciva dal portone... Accennò ad attraversare la strada come per andare all’edicola e noi, che eravamo lì appostati, per non farci vedere ci allontanammo dall’edicola stessa. Ma Tobagi non fece quell’attraversamento, e questo ci procurò qualche difficoltà, perché io e Fabio ci trovammo parecchio indietro rispetto al punto in cui dovevamo essere e fummo, in pratica, costretti quasi a inseguire il Tobagi. Infatti Fabio disse “Andiamo”, e accennò a una corsetta... Mi misi a correre anch’io, e giunti a quattro o cinque metri da Tobagi Fabio disse “Piano”. Io arrestai la mia corsa rimanendo indietro, Fabio continuò invece a correre e subito cominciò a sparare, mirando possibilmente al cuore, come poi mi disse».

La freddezza del killer si fa sentire anche al momento della confessione, nella precisione di ricordi e dettagli. «Tobagi fece due passi e cadde, mentre Fabio, che aveva esploso tre colpi, tentò di sparare ancora, ma la sua 7,65 si inceppò. Io allora sparai due colpi con la mia 9 corto: uno da distante, un due o tre metri, che non so se abbia attinto il giornalista; l’altro mentre, correndo, gli passavo vicino mentre era già a terra, e quando avevo ormai avuto la netta sensazione che lui fosse già morto».

Freddo e calibrato, il terrorista rosso Marco Barbone, 22 anni appena compiuti, al punto da lasciar trasparire che il colpo di grazia fu scaricato su un cadavere; e che il primo, forse, aveva mancato il bersaglio. In ogni caso la sua confessione, messa a verbale la sera del 4 ottobre 1980 nella stazione dei carabinieri di Porta Magenta a Milano, davanti al pubblico ministero Armando Spataro, accese uno squarcio di luce sull’omicidio di Walter Tobagi, 33 anni, inviato speciale del Corriere della Sera. Assassinato quattro mesi prima, la mattina del 28 maggio, da un gruppo di sedicenti guerriglieri rivoluzionari che rivendicarono il delitto con un volantino lungo sei pagine: «Oggi un nucleo armato della Brigata 28 marzo ha eliminato il terrorista di Stato Walter Tobagi... Individuare e colpire i tecnici della controguerriglia psicologica. Niente resterà impunito».

Non faceva nient’altro che il suo lavoro, Tobagi, e lo faceva con attenzione e ingegno, cercando di capire le ragioni e i retroscena della lotta armata che da anni stava insanguinando l’Italia. Esattamente due mesi prima di morire, il 28 marzo ’80, andò a Genova per raccontare la strage di via Fracchia: quattro brigatisti rossi uccisi in un blitz dei carabinieri nel covo indicato dal pentito Patrizio Peci. Scrisse un articolo in cui sottolineava, fra l’altro, la reazione indifferente degli abitanti del vicolo alla morte dei terroristi. E commentava: «È come se perfino un sentimento di pietà non possa più trovar spazio, ed è la conseguenza più avvilente di quella strategia perversa che ha voluto puntare sulla lotta armata».

Il nome della Brigata che lo ucciderà, 28 marzo, nacque proprio «in onore ai compagni caduti per il comunismo» in via Fracchia; un biglietto da visita scelto da sei ragazzi giovanissimi (non tutti «di buona famiglia», come fu detto per sottolinearne le origini borghesi e benestanti; ma Barbone sì) nella speranza di essere arruolati dalle Br. Per questo fu ucciso Tobagi, il cronista che si rammaricava per la pietà perduta dopo la strage di terroristi. Bersaglio selezionato con cura. «Considerato il suo nuovo ruolo nel Corriere — spiegò Barbone nella sua confessione, a una settimana dall’arresto — sempre più proiettato in quello di un giornalista destinato ad assumere sempre maggiori incarichi di responsabilità, Tobagi era stato scelto come un obiettivo nei confronti del quale la logica e la prassi della lotta armata imponevano l’annientamento».

Il ragioniere del crimine politico dettava a verbale come se stesse scrivendo un documento ideologico, o di rivendicazione, utilizzando gli stessi termini estranianti, per cui l’uccisione diventa «annientamento». E precisò: «È la stessa logica per cui anche per un Galli non si poteva pensare a un azzoppamento, ma solo a un omicidio», laddove per «azzoppamento» s’intende ferimento alle gambe. Pensavano e parlavano così, i terroristi nostrani di quarant’anni fa. E agivano così: prima di ammazzare Tobagi, il 7 maggio 1980, avevano colpito il giornalista de la Repubblica Guido Passalacqua: «Sparammo volutamente al polpaccio per causare un azzoppamento leggero», precisò Barbone nel suo primo interrogatorio da pentito. Svelando che in precedenza lui e i suoi amici avevano pensato di «annientare» il giudice istruttore Guido Galli, ma rinunciarono alla vista dei compagni di Prima linea che avevano avuto la stessa idea e la portarono a termine il 19 marzo (mancavano nove giorni alla strage di via Fracchia, e Galli fu uno dei tre magistrati uccisi in quattro giorni tra Salerno, Milano e Roma).

In quell’ecatombe del 1980 i sei ragazzi della «28 marzo» avevano pensato bene di «fare qualche cosa per rispondere alla stretta repressiva dello Stato». Secondo il pentito «emotivamente si pensò, all’inizio, ad una rappresaglia nei confronti dei carabinieri, come mettersi a sparare all’impazzata contro i primi a tiro davanti a una caserma; poi si convenne, più razionalmente, che la rappresaglia doveva essere più qualificata e qualificante». Decisero di puntare il mirino sui giornalisti come tre anni prima le Brigate rosse. E all’interno della categoria tra coloro che si occupavano di terrorismo, si concentrarono non sui cronisti di «tipo rozzo», come chi «praticamente incitava a proseguire sulla strada della pena di morte sul campo», bensì sui «più intelligenti, che con i loro articoli non avevano l’intento di insultare o aizzare, ma funzionavano come sonda all’interno della sinistra rivoluzionaria». Quelli che cercavano di capire e raccontare ciò che stava succedendo, insomma. Quelli come Tobagi.

Barbone e la sua pattuglia arrivarono all’inviato del Corriere dopo aver scartato altri nomi: Giampaolo Pansa, Giorgio Bocca, Marco Nozza. «Ma è bene precisare — spiegò Barbone — che la sua individuazione non è certo il frutto di una scelta autonoma del nostro gruppo. Egli infatti poteva considerarsi un vero e proprio “obiettivo storico” all’interno dell’area della lotta armata, il suo nome è circolato da sempre tra le persone da colpire».

Il pentito rivelò un precedente piano messo a punto dai cosiddetti Reparti comunisti d’assalto, senza però dire che lui stesso, nel 1978, quando non ancora ventenne bazzicava le Formazioni comuniste combattenti, aveva partecipato a un progetto di sequestro di Tobagi; lo rivelerà un altro collaboratore di giustizia, nel frattempo divenuto informatore dei carabinieri, da cui arrivarono le «soffiate» — sottovalutate o meno — che ancora oggi, a quarant’anni di distanza, alimentano le polemiche sul fatto che quell’omicidio si potesse evitare.

Il pubblico ministero Armando Spataro, che il 4 ottobre 1980 raccolse la deposizione di Barbone, resta a tutt’oggi convinto che gli investigatori fecero appieno il loro dovere, e che sul delitto Tobagi non ci sono ombre; né su quanto accadde prima, né sull’indagine che ne seguì: «La confessione, estremamente precisa, circostanziata, e preceduta da una genuina autocritica e dissociazione dal terrorismo, fu riscontrata in ogni particolare. E tutti gli altri componenti della banda armata, chi prima e chi dopo, ammisero le loro responsabilità».

Come premessa al suo racconto Barbone aveva dichiarato, col suo linguaggio da volantino, che «la lotta armata in Italia non ha prodotto nulla dal punto di vista degli obiettivi politici che si proponeva (presa di potere, guerra civile di lunga durata, costruzione dell’esercito proletario); ha invece prodotto numerosi guasti nella vita sociale, un imbarbarimento della vita civile e politica, uno smarrimento della capacità della classe operaia di essere soggetto politico trovandosi espropriata di ogni punto di riferimento finora acquisito, a causa della pratica della lotta armata».

Anche Paolo Morandini, ventenne al tempo dell’omicidio, collaborò subito con i magistrati, e come Barbone subì la condanna più lieve: 8 anni e sei mesi, entrambi in libertà provvisoria tre anni dopo gli arresti. Gli altri quattro — Daniele Laus che aveva 22 anni, Manfredi De Stefano di 23, Mario Marano (l’altro killer, nome di battaglia Fabio) di 27 e Francesco Giordano di 28 — ebbero pene più pesanti, fino a 21 anni di galera. In realtà a De Stefano in primo grado furono inflitti 28 anni di detenzione, ma morì in carcere prima del processo d’appello che sancì alcune riduzioni di pena. Nel 2018 è morto pure Morandini, gli altri vivono da tempo nuove vite.

La rapida scarcerazione di Barbone e Morandini scatenò violente accuse contro i magistrati di Milano, con relative illazioni su presunti scambi tra promesse di libertà e silenzi su qualche complice (la fidanzata dell’epoca di Barbone) e i mandanti occulti dell’omicidio, da ricercare in ambienti giornalistici, editoriali o politici. Illazioni che continuano a indignare Spataro: «Sono tutte fesserie. Fu applicata la legislazione per i collaboratori di giustizia, essenziale in quella fase per sconfiggere il terrorismo. Barbone fu un pentito importantissimo, il primo nell’area eversiva milanese, e dopo di lui maturarono arresti e pentimenti a grappoli. Non ci furono patti, e le indagini su eventuali mandanti esterni furono fatte eccome, anche su input dei carabinieri, ma non è emerso nulla. La storia è semplicemente quella ricostruita nell’indagine e nei processi».

Era stato proprio il capo del Nucleo antiterrorismo dei carabinieri, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, a ipotizzare nel luglio ’80 (prima dell’arresto di Barbone) che la Brigata 28 marzo fosse «una specie di coagulo di cani sciolti, che hanno trovato nella famiglia del giornalismo qualche sostenitore più accanito... A mio parere i cronisti ospitano nelle loro file certamente qualcuno che ha determinato un clima di cui si sono avvalsi i killer per uccidere Tobagi». Dopo la cattura fu lui stesso a convincere Barbone a parlare con i magistrati, delle responsabilità sue e di molti altri: «La confessione non si è fermata alla “28 marzo”, è andata più in là, siamo sui 100-120 personaggi», riferì alla commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo il 23 febbraio 1982, quando le indagini erano ancora in pieno svolgimento.

Sei mesi più tardi, il 3 settembre, anche dalla Chiesa fu ammazzato. Da altro piombo, stavolta mafioso. Al processo per l’omicidio Tobagi, nel marzo 1983, Marco Barbone chiese ai giudici «di non rievocare la tragica dinamica di quella mattina»; bastava quello che aveva detto in istruttoria. Preferì soffermarsi su ciò che avvenne dopo l’esecuzione del giornalista: «Inizialmente ci sembrava di aver raggiunto un obiettivo, tuttavia superato questo primissimo momento si era sostituita la sensazione di totale crollo; di esserci assunti delle responsabilità, prima umane che politiche, assolutamente sproporzionate a qualsiasi tipo di logica e di giustificazione. Io penso che tutti abbiamo avuto questa sensazione. Il fatto di avere questa personalissima responsabilità di toccare con mano l’orrore della morte che avevamo inflitto, almeno per quanto mi riguarda mi ha totalmente abbattuto, distrutto sotto ogni punto di vista. Non mi sentivo neanche più in grado di toccare un’arma».

Sembra un po’ meno freddo, il killer, ma sempre razionale e attento ai dettagli. Nonostante il «completo stato di scoramento personale», partecipò ancora a una rapina a mano armata, e il 24 settembre venne arrestato. Chiese quasi subito di parlare con il generale dalla Chiesa, per «pagare quantomeno un tributo in termini di conoscenza», e in pochi giorni si ritrovò seduto davanti a un magistrato. Il ragioniere del terrore aveva cominciato a ragionare sul futuro: «Questa scelta è innanzitutto la strada a un ritorno a una normalità, a un liberarsi da quella disumanizzazione che necessariamente produce la lotta armata e che porta a negarsi, innanzitutto come persone».

Walter Tobagi l’aveva intuito da sé: disumanizzazione, fine della pietà, proselitismo e lacerazioni all’interno del partito armato. Un gorgo che uccise anche lui.