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Usa, la partita infinita della scacchista Irina, più forte del Covid

Krush, 36enne di Brooklyn, ha il titolo di Gran Maestro. Positiva al virus, debilitata, ha giocato lo stesso (e portato la nazionale Usa in finale contro la Cina)

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DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
WASHINGTON - La partita a scacchi più lunga e più difficile è stata quella contro il Covid-19. La storia di Irina Krush, 36 anni, nata a Odessa in Ucraina, ma cittadina di Brooklyn da quando ne aveva cinque, ricorda un po’ la famosa scena del «Settimo Sigillo», film di Ingmar Bergman del 1958. Il Cavaliere (l’attore Max Von Sidow) sfida a scacchi la Morte, mentre imperversa la peste in un immaginario Medioevo.

Irina ha cominciato a giocare, ancora prima di imparare a leggere. La sua famiglia si era appena trasferita a New York, fuggendo, con altri ebrei, dal Paese che allora faceva parte dell’Unione Sovietica. A sei anni, racconta il New York Times, la bambina vince il suo primo torneo al Marshall Chess Club di Manhattan, il circolo dove ora insegna con il titolo di «Gran Maestro» riconosciuto dalla Fide, la Federazione internazionale della disciplina.

Le origini

Irina, si può dire, cresce tra torri, pedoni, alfieri. Il padre, un bibliotecario, la portava ad Asser Levy Park a Coney Island, uno di quegli spazi aperti diffusi anche a New York, dove i giocatori sfidano e strapazzano il pubblico con scacchiere consunte e cronometri vintage.

Irina doveva alzarsi in punta di piedi per muovere i pezzi, ma spesso piegava quegli uomini dall’apparenza torva, anche loro fuggiti dall’Urss e quindi, si potrebbe dire, scacchisti per nascita.

Una stella in America

Oggi, giovane donna, è una star nel suo ambiente. Ha vinto il titolo nazionale americano, sezione femminile, per sette anni. L’ultima volta nel 2015. E da allora alterna le gare all’insegnamento.

Il 12 marzo 2020 si sente poco bene. Tosse, difficoltà respiratorie. New York non è stata ancora investita in pieno dall’emergenza. Si gira liberamente, senza alcuna precauzione. Il 18 Irina non si è ancora ripresa. Si presenta al pronto soccorso del Community Hospital in Brooklyn, una delle strutture che di lì a pochi giorni sarà travolta dai contagiati. Comincia una prova durissima. Dentro e fuori l’ospedale per qualche settimana. Come racconta lei stessa su Facebook: «Ho visto medici stremati. Ma io non volevo morire a casa da sola... Questa non è solo una malattia. È una prova della vita. I giocatori di scacchi sanno che cosa significhi trovarsi in una brutta situazione, sanno che cosa significhi dover soffrire. Ho capito che sarebbe stata una lunga partita, senza una non facile vittoria».

Come il Cavaliere di Bergman

Così Irina, un po’ come il Cavaliere di Bergman, ha portato il virus a misurarsi sul suo terreno. Si è fatta scudo con la sua scacchiera. Ad aprile partecipa all’Online Nations Cap, un importante torneo internazionale. Non è ancora guarita. Perde la prima partita e, peggio ancora, il 5 maggio viene ricoverata di nuovo. Ma alla fine le sue condizCome ioni migliorano, così come la sua lucidità. Gioca nove partite, pareggiandone sei e vincendone una: quanto basta per portare il team Usa in finale contro la Cina.