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«Marina, chiacchiere per curare il tumore: così è morta mia sorella»

Rudy Lallo: la convinsero ad affidarsi a una terapia omeopatica e non alla chirurgia

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Ci sono parole che resteranno per sempre, con il loro carico ingombrante di angosce. Parole che rivelano i tormenti di una donna che ha paura di non farcela. «Tu per me sei importantissima, un faro nel buio. Io ho bisogno del tuo aiuto, devo sentire che mi curerai per sempre». Ma non sarà così, non sarà per sempre. La donna che nel febbraio 2014 tradisce preoccupazioni e inquietudini - in una mail indirizzata al proprio medico - morirà sette mesi più tardi, stroncata da un tumore. A ucciderla è un neo che si trasforma in un melanoma maligno. E che per nove lunghi anni viene curato con l’omeopatia e la psicologia, con erbe officinali e una introspezione intima ispirata alla Nuova Medicina Germanica di Ryke Geerd Hamer. Cure inutili, incapaci di sconfiggere il male. Marina Lallo - si chiamava così - non c’è più. È morta a 53 anni. La dottoressa che le consigliò la meditazione e la gentilezza al posto della chirurgia, Germana Durando, è stata condannata in via definitiva a tre anni e dieci mesi per omicidio colposo. E per Maria Gloria Alcover Lillo, la sua mentore madrilena, la Corte d’Appello di Torino ha confermato una pena di tre anni di carcere con la stessa accusa. Rudy Lallo, il fratello di Marina (medico anche lui), porta ancora dentro di sé il dolore e la rabbia per una vicenda che avrebbe potuto avere un epilogo differente.

Dottor Lallo, è arrivata un’altra condanna per la morte di Marina: i giudici non sembrano avere avuto mai dubbi su quanto è accaduto.
«Ho presentato il primo esposto il 23 febbraio 2015 e da allora sono state pronunciate cinque sentenze in cinque anni. La giustizia è stata velocissima».

Una giustizia rapida per una tragedia incomprensibile.
«Mi chiedo ancora come sia potuto accadere, come abbia fatto a non accorgermi che qualcosa non andava».

E che risposte si è dato?
«Marina non ha mai chiesto aiuto. E probabilmente non l’ha fatto perché glielo hanno impedito».

Cosa intende?
«Chi le stava accanto ha fatto in modo che non parlasse con chi le voleva bene, che non rivelasse che il neo che aveva sulla spalla diventava ogni giorno più grande».

Si riferisce alla dottoressa Durando?
«A lei e ad alcune amiche di Marina, che hanno appoggiato mia sorella nella folle scelta di abbandonare la medicina tradizionale. Hanno eretto un muro impedendole di comunicare con me, con nostra madre, con le persone che avrebbero potuto aiutarla. Nessuno di noi si è reso conto di quanto grave fosse la situazione. Quando l’abbiamo scoperto, era ormai troppo tardi».

Perché sua sorella si è fidata di Germana Durando?
«Si è creato un cortocircuito tra medico e paziente, con il primo che è diventato anche amico e confidente del secondo. Per Marina, Germana era tutto: era la santa - così la chiamava - che avrebbe seguito in capo al mondo».

A un certo punto le certezze di sua sorella vacillano.
«Sì, il neo si ingrandisce. E Marina chiede a Durando se non sia il caso di intervenire chirurgicamente. “So di essere noiosa”, scrive in una mail del gennaio 2014, “ma penso che qualcosa dobbiamo inventarci. Aspetto qualcosa che mi dia sollievo”».

Ma per Durando intervenire chirurgicamente non è la soluzione.
«No, perché mia sorella avrebbe dovuto lavorare sul perdono».

Sul perdono?
«Sì, avrebbe dovuto provare a recuperare il rapporto con il padre della figlia, un uomo che non è mai stato presente nella sua vita».

La famosa psicologia di Hamer.
«Per Hamer il tumore nasce da un dolore. Se si riesce a superare il trauma, il tumore regredisce».

Da pochi millimetri, il neo arriva a misurare 11 centimetri e mezzo.
«Di fronte a una cosa del genere, un medico non può continuare a parlare di perdono e gentilezza. Ha il dovere di salvare la vita al paziente».

Quel neo avrebbe potuto essere asportato molto tempo prima.
«Il 13 dicembre 2005 Marina prenotò una visita all’ospedale San Lazzaro. Quello stesso giorno, Durando le scrisse che la chirurgia non è guarigione. L’ho scoperto molti anni dopo».

Cosa insegna questa tragedia?
«Che di medicina ce n’è una sola. E che bisogna fidarsi dei medici, di quelli veri».
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