Possibile che nessuno stia indagando su cio’ che e' avvenuto nelle carceri italiane?
"TRATTATIVA" FOREVER - POSSIBILE CHE NESSUNO STIA INDAGANDO SU CIO’ CHE E' AVVENUTO NELLE CARCERI ITALIANE? - STRANE RIVOLTE CARCERARIE, MISTERIOSE CIRCOLARI MINISTERIALI, SOSPETTI LANCIATI COME SASSI IN TV. MA NESSUNA PROCURA INDAGA SULLO SCANDALO DELLE SCARCERAZIONI DEI DETENUTI MAFIOSI AVVENUTO SOTTO IL MINISTRO BONAFEDE - DALLO STATO DI EMERGENZA PASSANDO PER LA RIVOLTA, L’USCITA DEI BOSS E LE RIVELAZIONI DI NINO DI MATTEO: LA RICOSTRUZIONE DE “LA VERITÀ”
Maurizio Tortorella per “la Verità”
Se la giustizia italiana fosse giusta, una Procura avrebbe già aperto un' inchiesta. E i magistrati starebbero scavando nello scandalo delle scarcerazioni dei detenuti mafiosi, avvenute sotto il guardasigilli Alfonso Bonafede. Il materiale per un' inchiesta, del resto, c' è tutto: strane rivolte carcerarie, misteriose circolari ministeriali, sospetti lanciati come sassi in tv...
Sospettati non ce ne sono, ma il materiale alla base dell' indagine-che-non-c' è ha per lo meno la stessa forza di quello che una decina d' anni fa ha acceso il controverso processo palermitano sulla presunta «trattativa» tra Stato e mafia, oggi in Corte d' appello. In primo grado mafiosi, politici e uomini delle forze dell' ordine sono stati condannati per avere ordito un piano oscuro, indefinito in più passaggi: alleggerire il carcere duro per i boss di Cosa nostra, detenuti in base all' articolo 41 bis della legge sull' ordinamento penitenziario. Voluta dal ministro della Giustizia Claudio Martelli dopo la strage di Capaci del maggio 1992, costata la vita a Giovanni Falcone, quella norma impone ai capi mafiosi un duro regime di sorveglianza e l' impossibilità di comunicare con l' esterno.
Secondo l'accusa, sostenuta dai pm antimafia palermitani raccolti attorno a Nino Di Matteo, tra il 1992 e il 1993 la presunta «trattativa» avrebbe visto da una parte i mafiosi, che minacciavano nuove bombe se il 41 bis non fosse stato attenuato, e dall' altra gli uomini dello Stato che facevano di tutto per evitarle.
Imbastito su elementi a volte fumosi o inconsistenti, il processo Trattativa ha monopolizzato per anni il dibattito giudiziario e condizionato la vita politica. Al confronto con gli elementi alla base quel processo, paradossalmente, la sequenza dei fatti di questo terribile 2020 è più concreta e coerente. Però nessuno, almeno che si sappia, sta indagando. Il problema, a pensar male, è forse che la vicenda non coinvolge attori di centrodestra.
Tutto comincia il 31 gennaio, quando il governo di Giuseppe Conte delibera lo stato d' emergenza per coronavirus. Quel giorno, secondo il ministero della Giustizia retto dal grillino Bonafede, le prigioni hanno un preoccupante sovraccarico di detenuti: sono 60.971, contro una capienza «regolamentare» di 50.692 e una disponibilità effettiva di 47.000 posti. Le celle scoppiano, il rischio di contagio è grave. Che cosa fa il ministro?
Nulla. Che cosa fa il capo del Dipartimento dell' amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, il magistrato che Bonafede ha scelto per quell' incarico nel giugno 2018, poco dopo il suo insediamento? Niente. Per tutto febbraio, ministro e capo del Dap non agiscono. Il 18 di quel mese, Basentini spedisce alle 189 carceri italiane le «Linee programmatiche per il 2020»: su 12 pagine, due sono dedicate al tema «La sanità negli istituti penitenziari», ma le parole «epidemia», «coronavirus» o «Covid-19» non compaiono nemmeno di striscio. Possibile non si capisca che le prigioni scoppiano e che il virus inevitabilmente le coinvolgerà?
A fine febbraio i detenuti aumentano ancora: 61.230. Intanto l' onda della pandemia è montata, è uno tsunami. La paura del contagio si fa terrore, il malumore ribolle. Ai primi di marzo qualche protesta scoppia fuori dai cancelli. La risposta del ministero è così irrazionale da lasciare interdetti: vengono sospesi permessi-premio e visite dei familiari. Il risultato è inevitabile.
Tra il 7 e il 9 marzo, in 26 prigioni, scoppia la più violenta rivolta degli ultimi 40 anni. Lascia 14 morti tra i detenuti (ufficialmente per overdose da metadone, rubato nelle infermerie), 50 agenti feriti, una settantina di evasi, danni per 35 milioni. C' è chi scrive che è tutto «organizzato», che c' è «una regia», ma anche quel tema stranamente evapora. Di certo i rivoltosi incontrano magistrati, ufficiali delle forze dell' ordine, e consegnano loro rivendicazioni e richieste.
La protesta finisce. Passano dieci giorni, e il 21 marzo ecco altre anomalie. Il Dap invia un' irrituale circolare ai direttori delle prigioni: chiede di comunicare «con solerzia all' autorità giudiziaria» i nomi dei detenuti in condizioni di salute ed età tali da esporli al rischio di contagio. Il risultato dell' indagine servirà «per le eventuali determinazioni di competenza» dei Tribunali di sorveglianza, cioè per le possibili scarcerazioni.
Mistero nel mistero, a firmare la circolare non è Basentini, né un direttore subordinato, ma l' addetta stampa Assunta Borzacchiello. Nessuno ne ha mai capito il perché. Il vero mistero, comunque, è la circolare, che subito viene letta come la chiave per aprire le celle. Non per nulla, il documento specifica che, «oltre alla relazione sanitaria» di ogni detenuto a rischio, devono essere allegate altre informazioni, tra cui «la disponibilità di un domicilio». E difatti i ritorni a casa cominciano: in sordina, a decine.
Piano piano, escono di cella 376 detenuti pericolosi. Lo scandalo esplode solo a metà aprile, quando i giudici di sorveglianza spediscono ai domiciliari una serie di «pezzi da 90», fino a quel momento reclusi al 41 bis. Personaggi come Francesco Bonura, boss di Cosa nostra condannato a 23 anni; o come Pasquale Zagaria, fratello di Michele e mente finanziaria del clan camorristico dei Casalesi, condannato a 20 anni. Lo segnalano alcuni giornali, tra cui La Verità, e la polemica si fa rovente. Si scopre che il Dap non ha fornito ai giudici soluzioni alternative per i boss, che non ha saputo cercare posti nelle «strutture sanitarie protette».
Il Dipartimento ha perso tempo, ha perfino spedito e-mail agli indirizzi sbagliati. Un' inconcludenza mai vista prima, nella struttura. Basentini vacilla. A fine aprile il guardasigilli decide di sacrificarlo, e il capo del Dap si dimette.
Ma ai primi di maggio la polemica ha un ritorno di fiamma perché in tv Nino Di Matteo accusa Bonafede di avergli offerto e precipitosamente negato la guida del Dap che nel giugno 2018 ha poi affidato a Basentini. La rivelazione è quasi grottesca: due anni dopo la sua mancata nomina, Di Matteo - che, ricordiamolo, è uno dei pm del processo «Trattativa» - ipotizza che il ministro abbia fatto retromarcia sul suo nome per le proteste di «importantissimi boss mafiosi detenuti», preoccupati che il suo arrivo al Dap potesse produrre una stretta del 41 bis.
A quel punto, mentre l' opposizione chiede le sue dimissioni, l' imbarazzatissimo Bonafede vara due decreti in pochi giorni: il primo subordina le scarcerazioni dei boss al Sì delle Procure antimafia; il secondo impone ai Tribunali di sorveglianza di verificare di continuo la salute dei boss trasferiti a casa. Intanto, nel silenzio di tutta la stampa italiana, La Verità riporta la sconcertante denuncia del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo. L' ex boss di Cosa nostra, che si è pentito con Falcone nel 1992 e da 28 anni viene ritenuto affidabile, dice che le scarcerazioni dei boss «fanno parte della Trattativa tra Stato e mafia, che non è mai finita», e aggiunge che «è inutile che adesso il ministro annunci in pompa magna che li fa tornare in carcere: ormai sono fuori, i buoi sono scappati dal recinto». Anche il suo j' accuse cade nel vuoto.
L' ultimo capitolo della storia riguarda la visita che Basentini ha fatto a Michele Zagaria, boss dei Casalesi recluso al 41 bis nel carcere dell' Aquila. Secondo quanto rivela oggi un cronista napoletano esperto di camorra, Paolo Chiariello, nel novembre 2018 il capo del Dap sarebbe entrato nella cella di Zagaria con il direttore della prigione e con una terza persona. Incontrare i detenuti è tra le facoltà del capo del Dipartimento. Intercettato poco dopo, però, il boss confida a un compagno di cella di aver parlato con «uomini delle istituzioni», che gli hanno fatto capire che il suo 41 bis non si può allentare solo per l' opposizione della Procura di Napoli. Se l' avesse saputo Di Matteo, una decina d' anni fa, chissà quali indagini ci avrebbe imbastito.