Mancano 20 miliardi di investimenti sull'istruzione. Ora sfruttiamo il Recovery Fund
by Francesco SinopoliNel corso di una conversazione su ciò che si guadagna e ciò che si perde nella didattica a distanza, Carlo Sini scrive parole decisive sul senso dell’istruzione, dell’educazione e della formazione. Egli, in sintesi, sostiene che nulla è sostituibile alla “presenza fisica”, perfino quando la storia consegnerà le nuove generazioni a una trasformazione generale delle condizioni di apprendimento, passando interamente dall’analogico all’omnidigitale.
Secondi Sini, “la presenza fisica disegna una comunità fondamentalmente ‘politica’, che decide e condivide a ragion veduta i tempi e i modi dei suoi itinerari, le sue modalità di esercizio, di valutazione e di prova, le collaborazioni attive nel lavoro, al di fuori (idealmente) di ogni burocrazia; quindi una comunità parzialmente libera dalla incidenza, peraltro necessaria e importante, della strumentazione tecnica del lavoro e concentrata invece sulla sua finalità propria: la formazione nei presenti (docente incluso) di una sapienza umana in esercizio, e perciò e solo perciò culturale”.
Il fatto è che, scrive ancora Sini, “la burocrazia tecnologico-amministrativa ha invaso da tempo la scuola e gli atenei. Essa ha di fatto cancellato in gran parte il senso profondo della formazione e la libertà della ricerca. Nella trasmissione a distanza certamente la logica delle macchine e dei poteri che le rendono disponibili la fa da padrona. Si impone di fatto quella divisione delle discipline, quella specializzazione di competenze in cui la domanda di senso del processo formativo, la competenza in ‘umanità’ della ricerca scompare quasi del tutto. Interdisciplinarità senza nessuna trans-disciplinarità intesa come ‘ricostruzione’, diceva Dewey, del lavoro sociale della conoscenza come sterminato processo umano in cammino”.
Mi scuso per la lunghezza della citazione ma è difficile trovare, con tale chiarezza espositiva, un’argomentazione che illustri le questioni che stiamo affrontando in queste ore, e per quali ragioni i sindacati, ma anche importanti settori dell’opinione pubblica e della intellighenzia nazionale, caparbiamente insistono sulla centralità della ricostruzione “fisica” della relazione educativa nelle aule “fisiche” di scuole e università.
Tutte le questioni di cui dibattiamo in questi giorni nascono da qui, “dalla necessità profonda dei luoghi della formazione”, che non potrà mai essere sostituita nell’incontro “in carne e ossa”, poiché insegnare è innanzitutto e per lo più, una relazione, umana, prima ancora che educativa o formativa. Immaginare, dunque, come riportare tutti in classe o in aula è la grande questione, piuttosto che il quando. Ciò significa condizioni certe di sicurezza, nuove risorse economiche, nuovi progetti architettonici, nuove assunzioni. Questo è il primo, essenziale passaggio, che chiarifica gran parte delle nostre posizioni, manifestate, argomentate e sostenute sempre con estrema onesta cocciutaggine.
Sono considerazioni, queste, che legittimano l’azione politica del sindacato dell’istruzione nel corso di questi mesi, coerentemente perseguita nel confronto con tre diversi governi e in due diverse legislature. Prima ancora della diffusione della pandemia e durante la pandemia. Non scopriamo oggi che avremmo necessità di classi più piccole pensate davvero per rispondere ai bisogni di apprendimento delle bambine e dei bambini, dei ragazzi e delle ragazze, non scopriamo oggi che avremmo bisogno di laboratori, strumentazioni tecniche, palestre e città pensate per offrire alla scuola opportunità culturali e spazi nuovi.
Ciò che di negativo viviamo oggi viene da lontano, viene dalla considerazione degli investimenti sull’istruzione e nella ricerca come spesa pubblica superflua e da tagliare. Così, si sono creati nella scuola istituti dalla grandezza mostruosa e ingestibili, nel tentativo, sbagliato, che la loro aziendalizzazione da quasi mercato avrebbe dato soluzione ai problemi. Così, nelle università ha vinto una autonomia anarchica e iper competitiva, che ha trasformato la didattica in burocrazia dell’esame e la ricerca in un orpello quasi inutile e costoso.
Così, si è dato corso ad una trasformazione dell’istruzione in privilegio piuttosto che considerarla come diritto costituzionale. Ecco perché sono stati tagliati fondi per decine di miliardi di euro all’alba di questo millennio. Qualcuno lo ha anche teorizzato: il ministro Tremonti citava Ronald Reagan e il suo “starving the beast”, affama la bestia, che poi altro non è che lo Stato. Lo stesso Stato che deve garantire a tutti i diritti costituzionali partendo da salute e istruzione.
E si tratta di risorse che sono state sottratte ma che non sono mai state ripristinate, e l’Italia risulta agli ultimi posti, non solo in Europa, per investimenti in istruzione. Manca almeno un punto di Pil (pari a 18 miliardi, se consideriamo il 2019) per recuperare appena il gap con la media europea. Poi è arrivata la pandemia, che ha scoperchiato, di fatto questi dati. Ecco perché, per quanto riguarda l’investimento pubblico nell’istruzione, occorre partire da quel gap, e quel miliardo e mezzo previsto dal Decreto liquidità non pare affatto sufficiente, soprattutto se occorrerà immaginare il periodo post-Covid.
Servono urgentemente tante risorse per l’istruzione. Dove prenderle? Un’occasione potrebbe, anzi deve essere il Fondo per la ripartenza, il cosiddetto Recovery Fund europeo. Da lì possono essere recuperate le risorse per metter fine una volta e per tutte alla distanza tra noi e i paesi europei più avanzati. 12, 15, 20, 25 miliardi per istruzione e ricerca? Sì, questa è l’occasione migliore che ci si presenta.
Seconda grande, enorme, questione. Nella nuova scuola, tutta “in presenza”, in ogni ordine e grado, anche per le superiori (la tendenza a immaginare didattiche online per gli adolescenti in alternanza non sembra essere una buona idea) avremo bisogno dunque di un robusto innesto di nuovo personale, docente e amministrativo, e di cura e tutela, degli spazi, dei tempi e delle persone. Ecco perché occorre procedere entro settembre alla stabilizzazione dei precari storici con anni di servizio già prestato, senza cedere a un uso politico e propagandistico dell’ideologia della finta “meritocrazia”.
Parliamo di docenti che lavorano con contratti a termine reiterati di anno in anno ben oltre i limiti consentiti dalla normativa europea, insegnanti ai quali ancora oggi viene negato l’accesso all’abilitazione professionale e rispetto ai quali la politica da mesi non fa atro che dibattere sulle prove a cui sottoporli per scremare chi sarà assunto da chi resterà precario. Tutto questo mentre crescono le cattedre vacanti, che a settembre toccheranno quota 200 mila, e non si fa nulla per garantire un minimo di continuità didattica alle classi.
Per questi motivi è ormai ineludibile un serio intervento sul tema della formazione in ingresso e del reclutamento, con una rivoluzione copernicana che metta al centro al centro la formazione in ingresso dell’insegnante e ponga un argine alla maniacale rivisitazione delle modalità di selezione a cui abbiamo assistito negli ultimi 15 anni.
Serve un piano di assunzioni, che investa anche il sostegno, settore nel quale si annida il grosso dei contratti a termine, con oltre 80 mila posti gestiti con le supplenze al 30 giugno, che devono invece diventare stabili per assumere insegnanti specializzati con contratti a tempo indeterminato. E serve l’avvio dei percorsi abilitanti a regime di livello universitario, che diano ai futuri docenti quella preparazione metodologico didattica che nella scuola primaria è garantita dai percorsi di Scienze della Formazione e che anche nella secondaria deve trovare la giusta attenzione.
E poi la questione architettonica, ben oltre la necessaria sicurezza degli edifici. Non è arrivato il momento di modernizzare architettonicamente il nostro patrimonio edilizio per l’istruzione? Noi crediamo di sì. È un diritto di chi lavora e studia, delle famiglie sapere che gli edifici sono sicuri, sia sul piano edilizio che sul piano sanitario. Gli scienziati ci ripetono spesso in queste ore che si attende in autunno una seconda ondata epidemica. Che faremo? Bloccheremo di nuovo le attività scolastiche e universitarie? Che faremo, torneremo alle polemiche sulla didattica a distanza? Che faremo, torneremo a traumatizzare bambini e adolescenti, genitori e nonni con il costringimento della nuova chiusura in casa?
Noi vorremmo evitare una seconda epidemia e un secondo lockdown. Per farlo dovremmo non solo seguire gli avvertimenti e i consigli della scienza, ma soprattutto, e ancora una volta, progettare un piano razionale, concreto, condiviso di ricostruzione delle nostre scuole e delle nostre università. E si ritorna, come in una sorta di gioco dell’oca, alla necessità di risorse finanziarie, alla necessità di una visione del futuro, a breve, medio e lungo periodo, al bisogno di condividere progetti con coloro che l’istruzione la vivono ogni giorno. Nessuno può pensare di salvarsi da solo, e nessuno può pensare di salvare da solo/a l’istruzione.
In conclusione, scuola, università e ricerca sono i pilastri, con la sanità pubblica, dell’impianto democratico e della tenuta costituzionale del nostro Paese. Investirvi risorse, economiche e professionali, non è un privilegio né un favore, è la manifestazione della politica che ha senso dello Stato, e capisce quali sono le vere priorità. Se la politica non è in grado ora di capirlo, non lo sarà mai.