Perché la ‘’movida’’ è un atto di libertà

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ANSA

La neolingua di cui facciamo uso corrente è zeppa di parole importate dall’inglese. L’ultima che abbiamo sentito pronunciare e visto scrivere per più di due mesi è lockdown (chiusura), la cui esecuzione ha combinato più guai di quelli che avrebbe dovuto evitare. Negli ultimi tempi sono entrate a far parte del nostro vocabolario abituale anche alcuni sostantivi mutuati dallo spagnolo, che, per diverse ragioni, hanno finito per indicare un modo di atteggiarsi delle persone.

Il mojito, per esempio, non è più soltanto un aperitivo, ma è diventato un simbolo politico, quasi una scelta di campo. Nel lessico dell’esperanto de noantri ha fatto il suo ingresso la parola (anch’essa in castigliano stretto)  ‘’movida’’ che non si limita a evocare un movimento qualsiasi, ma il passeggio fine a se stesso, per incontrare gli amici, osservare le vetrine dei negozi,  godersi il tempo libero con fare spensierato, senza una meta precisa. 

Un comportamento rigorosamente proibito per diverse settimane. Lo shock da coronavirus è stato tanto persuasivo da indurre gli italiani ad accettare direttive prive di senso, talvolta assurde e contraddette nel giro di poche ore, in un gioco a rimpiattino tra governi, nazionale e regionali.

Per imporre la regola aurea del “distanziamento personale” e del confino nel tinello di casa si sono usati mezzi eccezionali: tutti i canali televisivi a ciclo continuo; le pattuglie motorizzate delle Forze dell’ordine incaricate di istituire posti di blocco e infliggere contravvenzioni e presentare denunce contro coloro che osavano acquistare prodotti non ritenuti di prima necessità o chi veniva scoperto ad andare a zonzo (guai se accennasse soltanto a un passo di corsa) oltre i canonici 200 metri dalla sua abitazione).

Hanno fatto la loro parte persino gli elicotteri, i droni e l’esercito. Gli assembramenti sono stati considerati veri e propri atti di sedizione, anche se riservati a eventi che gli esseri umani compiono da millenni. I casi di assurda follia metropolitana sono tanti che è meglio archiviarli nella cartella sanitaria di una nevrosi collettiva. 

Oggi - dopo la riapertura di molti esercizi pubblici e la fine degli arresti domiciliari a cui sono stati sottoposti milioni di italiani, terrorizzati dall’esibizione quotidiana di virologi d’antan, che spiegavano, ognuno a suo modo, quanto fosse pericoloso e letale il virus sconosciuto -, le città hanno ripreso a vivere.

È ricominciata la ‘’movida’’. Invece di salutare questo tranquillo tripudio di giovani (e non solo) che tornano nei parchi, rivedono gli amici (dopo che lo Stato etico aveva stabilito – con il sostantivo plurale ‘’congiunti’’ – quali fossero le persone che era lecito frequentare), la ‘’movida’’ viene vista come un pericolo da contenere e reprimere.

Addirittura un ministro ha proposto di assumere 60mila vigilantes in funzione antimovida (che si sarebbero aggiunti agli inutili e sperduti navigator e ai sempiterni precari della scuola da assumere, periodicamente, a decine di migliaia, senza chiedersi se servono o no).

Chi scrive è grato ai giovani che si riprendono le strade e le piazze, smentendo quei concittadini ossessionati che si sono lasciati privare per mesi non solo delle libertà con la ‘’L’’ maiuscola, ma anche di quelle banali come farsi tagliare i capelli.

La vera epidemia scatenata dal virus è riassumibile nel pensiero di Hobbes: ‘’homo homini lupus’’. Per settimane ci hanno indotti a ritenere il vicino di casa, il parente o l’amico come un pericolo per la nostra salute se non addirittura per la nostra sopravvivenza; ci hanno portato ad attraversare la strada se per caso incrociavano un passante senza mascherina (peraltro non è ancora chiaro se questo ‘’oggetto del desiderio’’ per settimane venduto al mercato nero, serva o meno alla nostra sicurezza).

Ecco perché la ‘’movida’’ è un atto di libertà; anzi, di liberazione. È la presa di coscienza delle esagerazioni che hanno accompagnato la terapia sociale di lotta al contagio; che hanno paralizzato gran parte dell’economia, desertificati le città e il territorio, mentre le persone contraevano il virus e soffrivano nel chiuso delle loro stanze, in un ospedale o in una casa di riposo o in famiglia.

C’era da temere che il ‘’distanziamento sociale’’ diventasse un modo di intendere la vita (basti pensare a quale danno psicologico ed educativo si è procurato a un bambino inculcandogli la paura degli altri e la cultura dell’isolamento). Per fortuna, le persone non sono uscite ‘’migliori’’ dalla crisi; si sono accontentate di tornare a essere come prima.