Arte "sopravvivente"

Soggetti che sono ancora dentro al disastro, ma combattono senza paura, perché semplicemente quella di non arrendersi è la loro natura

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Jacopo Mandich/galleria d'arte FABER
"Sopravviventi" di Jacopo Mandich (ferro recuperato, 2016/2019). Per gentile concessione della galleria d'arte FABER.

Ci sono delle piccole sculture di Jacopo Mandich, un artista che seguo, stimo e ho l’immenso privilegio di poter chiamare amico, che recentemente mi sono tornate con prepotenza davanti agli occhi. Si chiamano “Sopravviventi” e sono dei mini personaggi assemblati con materiali di recupero come bulloni, viti, chiodi ma anche scarti di saldatura, ingranaggi, catene o vecchi circuiti elettrici.

Questi minuscoli individui sono sempre in fermento, la gran parte di loro imbraccia armi improvvisate e lotta, combatte con orgoglio per la propria esistenza e per difendere la comunità, costituita da artisti, ballerine, musicisti ma anche lavoratori di ogni sorta oppure tipi stralunati, gente in meditazione o dedita a pratiche d’amore.

Insomma un mondo completo, verrebbe da dire, strutturato e complesso.
Io li ho sempre immaginati come rifiuti di una società del futuro, magari provenienti dalle fognature di un mondo parallelo, post atomico e mi sono sempre fatto il film che fossero apparsi in questa linea spazio/temporale per colpa di qualche esperimento nucleare segreto sfuggito di mano a una misteriosa multinazionale.

Comunque, tornando a noi, al di là della passione sconfinata per queste opere, cariche di un’ironia graffiante, cinica e politicamente scorretta, scelgo di parlarne qui perché mi sembrano davvero icone straordinariamente perfette di questo nostro tempo sospeso e incerto.

Il loro nome, in particolare, mi esplode nella testa. Non sopravvissuti, cioè persone che sono rimaste vive dopo un disastro, ma sopravviventi, cioè soggetti che sono ancora dentro al disastro ma combattono senza paura, perché semplicemente quella di non arrendersi è la loro natura.

È così che percepisco l’arte di questo periodo, sopravvivente, con quel senso di contemporaneità vissuta che appartiene al participio presente e dove, spero sia chiaro, non c’è alcuna accezione negativa riguardante il “tirare a campare”, ma semmai un’istanza continua alla resistenza e, magari, alla ridefinizione di sé nelle avversità.

Lo so, c’è una parola che potrebbe risolvere tutto questo panegirico con poche, fulminanti sillabe. Mi ha sempre molto incuriosito, in effetti, il fenomeno delle mode verbali, il proliferare cioè di parole o espressioni che in un determinato momento storico iniziano ad essere usate e finiscono ben presto per essere abusate.

Adesso, appunto, è il tempo della parola “resilienza” ed è lei la vera protagonista della nostra contemporaneità, tanto da fiorire in tatuaggi sulle caviglie di gente improvvisamente dedita alla divulgazione psicologica o nei blog di cucina, magari per esaltare la metafora di quell’erba aromatica spontanea che torna a crescere sempre nello stesso punto da anni e anni.

Ora, a parte gli scherzi, il concetto che è alla base dell’espressione “essere resiliente” è senza alcun dubbio profondo, riguarda una caratteristica specifica e fondamentale non solo dell’essere umano ma della natura nel suo complesso e raggiunge ambiti che riguardano la fisica e la scienza in senso più ampio.
La mia istintiva antipatia riguarda più il suo essere diventata glamour ed aver, quindi, in qualche modo perso la sua meravigliosa elasticità di significato.

Leggo spesso, ultimamente, di un’arte contemporanea resiliente. Il fatto è che, per quanto di animo inguaribilmente ottimista riguardo le cose d’arte, per quanto fino alla settimana scorsa ancora volessi credere al meglio, al ripartiamo subito, non posso non percepire contrarietà importanti, musei che sono ancora chiusi, altri che non sono in grado di produrre la seppur minima certezza di una riapertura, gallerie d’arte con opere rimaste a fare le ragnatele per due mesi che si riaffacciano coraggiosamente alla luce del sole e, colpo di grazia, la Biennale di Venezia che sposta tra un anno architettura e arte addirittura nel 2022 (non commento questo fatto specifico per eccesso di amore e sofferenza).

Per questo ritengo che, per definire il momento dell’arte contemporanea, sopravvivente sia forse più giusto che resiliente, con tutto quel senso di combattività attiva in una lotta per niente esaurita alla quale la prima parola rende, forse, maggiormente giustizia.

Una lotta, magari, che parta dal basso, da qualcuno o qualcosa che, come nel caso dei personaggi di Mandich, forse fino a oggi abbiamo dimenticato o scartato, nuovi orizzonti, nuove frontiere, nuovi materiali, oppure ritorni ad un’idea di arte più antica, a pratiche perdute.
In ogni caso un risveglio, una genesi.

Non ho la pretesa di sapere cosa ci aspetterà dietro l’angolo da questo punto di vista, resto aperto allo stupore che l’opera d’arte ha sempre il potere di provocarmi.

Per citare Pino Daniele: “per sognare poi qualcosa arriverà”. L’arte è e sempre sarà sopravvivente. O resiliente, fate voi, mi arrendo.