La differenza tra aiutare e aiutarsi

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Nicoletta Novara/Still I Rise

La FAO stima che servano 267 miliardi di dollari all’anno per sradicare la fame nel mondo. I soli Stati Uniti raccolgono ogni anno oltre 400 miliardi per opere di carità. Eppure la fame esiste ancora. Cosa sta succedendo?

Nel 2013, quando avevo 20 anni, sono partito per un’esperienza di volontariato in India. Sono partito con le migliori intenzioni pagando una somma notevole a un’organizzazione di volontariato internazionale, solo per poi accorgermi che la mia presenza laggiù era superflua. Ero totalmente impreparato alla cura di bambini che vivevano in un orfanotrofio.

La mia non era un’esperienza di volontariato, era volonturismo. C’è una grande differenza tra fare i volontari ed essere volontari, ed è lo stesso spartiacque che divide chi è nel business della cooperazione internazionale e chi, invece, opera in modo etico. Ma cos’è il volonturismo?

Il volonturismo è un business che coinvolge oltre 1,6 milioni di ingenui benintenzionati ogni anno. La maggior parte dei programmi di volonturismo non richiedono al volontario alcuna qualifica o esperienza. Gli unici prerequisiti sono il desiderio di fare la differenza e la propensione a giocare con i bambini poveri durante le vacanze.

“E cosa c’è di male in questo?” ci si chiede. La risposta è: dipende. Le storie di volonturismo si sprecano in rete, alcune piuttosto rocambolesche, altre meno. C’è quella della volontaria adolescente partita per costruire una scuola in Kenya senza avere alcuna esperienza nell’edilizia, solo per poi scoprire che i muratori locali, ogni notte, smantellavano il suo lavoro per ricostruire muri solidi.

Poi c’è quella della missionaria americana che ha aperto una clinica medica in Uganda. Il problema? La missionaria in questione non era affatto un medico. E ora è denunciata per morte di 105 neonati presso il tribunale civile dell’Uganda. E infine c’è la mia, di storia. In quei primissimi tre mesi di volontariato in India ho creato dei legami profondi con i bambini con cui facevo attività. E poi ho dovuto andarmene, abbandonandoli. Questi sono bambini che hanno perso la famiglia e, a causa del volonturismo, rivivono il loro trauma più grave ancora e ancora.

Quindi chiediamoci: chi è il vero beneficiario dell’esperienza di volonturismo, la comunità locale o il volontario stesso? I danni di questo fenomeno non finiscono qui. Gli effetti negativi del volonturismo valicano l’esperienza dei singoli plasmando il mondo della cooperazione internazionale tutto.

I dati rivelano che gli orfanotrofi in Uganda sono aumentati del 1600% dal 1992 a oggi. In più, si stima che oltre l’80% dei bambini che vivono negli orfanotrofi del mondo non siano veri orfani. La causa? Noi. Noi con il nostro bisogno di appagamento creiamo la domanda, e chi lucra sull’umano bisogno di sentirsi utili fornisce l’offerta.

Ed ecco che, quando gli orfanotrofi vengono creati ad hoc e i bambini separati dalle famiglie in nome delle donazioni e del profitto, il mondo dell’aiuto umanitario internazionale diventa uno dei business più redditizi al mondo. Ho lavorato per quattro anni in un orfanotrofio in India. Ha cambiato la mia vita e aperto il mio cuore. Ma nonostante questo, penso che tutti gli orfanotrofi del mondo, anche quelli buoni, debbano essere chiusi.

La ricerca internazionale rivela che i bambini che crescono in istituti hanno maggiori probabilità di sviluppare malattie mentali, disturbi affettivi e ritardi della crescita. Una volta adulti, hanno dieci volte più probabilità di prostituirsi, quaranta volte di delinquere, e cinquecento volte di togliersi la vita.

E se calcoliamo che un’esperienza di volonturismo costa in media 2000 dollari, moltiplicata per 1,6 milioni di volonturisti ogni anno, otteniamo oltre 3 miliardi di dollari che potrebbero invece essere donati a organizzazioni etiche di aiuto umanitario volte al sostegno e all’emancipazione delle comunità locali.

Aggiungiamo poi i 400 miliardi raccolti ogni anno solo negli Stati Uniti e la solita, scomoda domanda riecheggia: dove vanno tutti questi soldi?

Il fenomeno è complesso e la risposta tutt’altro che semplice, ma ci sono un paio di esempi che saltano in mente e aiutano a fare chiarezza. Dopo il terremoto del 2010 ad Haiti, un’associazione di avvocati denunciò che il 66% delle donazioni raccolte, anziché beneficiare la gente di Haiti, furono investite per funzionamento delle organizzazioni che si proponevano di aiutare la gente di Haiti. Il secondo esempio è quello dei salari, dei bonus, delle buonuscite di queste organizzazioni, che ai livelli dirigenziali contano anche svariati zeri. Insomma, la dispersione è altissima in questi apparati della solidarietà internazionale.

È deprimente quando scopriamo che aiutare i bisognosi e combattere le ingiustizie non è così semplice come appare. Ma c’è una soluzione. Se ci informiamo, allora possiamo compiere scelte migliori. Esistono organizzazioni affidabili, basta sapere cosa cercare. Dopo quella prima esperienza di volonturismo, ho deciso di cambiare approccio.

Ho intrapreso un percorso di formazione che mi permettesse di essere utile nel mio fare volontariato. Mi sono trasferito in India per diventare una presenza affidabile nella vita dei bambini dell’orfanotrofio, e così sono rimasto per quattro anni. Qui ho creato canali di sostentamento alternativi che hanno permesso all’orfanotrofio di affrancarsi dai meccanismi del volonturismo.

Nel 2018, dopo aver visto quei bambini crescere, ho portato in Europa quello che avevo appreso in India. Qui ho fondato Still I Rise, un’organizzazione umanitaria basata sull’indipendenza dai fondi istituzionali, sulla trasparenza nell’uso delle donazioni, e sull’efficacia di un lavoro sempre nell’interesse dei beneficiari.

Due anni dopo, operiamo e stiamo aprendo scuole in Turchia, Siria, Grecia e Kenya. Nelle nostre scuole assicuriamo ai bambini dimenticati del mondo un futuro tramite educazione di alto livello, e lo facciamo supportando anche le loro famiglie, così che possano restare insieme.

A Still I Rise promuoviamo un volontariato etico, sano, competente e slegato dalle logiche del business. Non siamo gli unici per fortuna, ma siamo in pochi: siamo in pochi a non viaggiare in business class, a non pernottare in hotel di lusso, a rifiutare stipendi esorbitanti a spese dei donatori. Più cresciamo e ci espandiamo nel mondo, più scopriamo la corruzione del business in campo umanitario. Ma al contempo, più cresciamo e ci espandiamo, più possiamo fare del bene, e creare un precedente, e dare l’esempio, e un giorno, forse, cambiare il sistema.

Sono un volontario, ma non faccio volontariato. Sono un volontario ma faccio il Direttore Esecutivo di un’organizzazione internazionale che apre scuole nel mondo. Non prendo alcuno stipendio, solo un rimborso spese di massimo € 500 euro al mese.

E questo, me ne rendo conto, infastidisce chi ha potere e potenti interessi. “Sono una spina nel fianco,” penseranno. “Sono dei guastafeste, dei ciarlatani, dei rompiscatole.” Un giorno, quando ancora non lo so, proveranno a metterci i bastoni tra le ruote. A zittirci. A fermarci. Ne sono certo. Ma questo non basterà a piegarci.

A volte mi chiedono se mi pesi fare tutto questo senza retribuzione, da volontario: la risposta è no, non mi pesa. Cosa sono i soldi quando puoi cambiare vite umane?

Cos’è la roba, il lusso, le cose costose, quando puoi alleviare il dolore altrui? Lo faccio, e continuerò a farlo finché ne avrò la forza in corpo, perché mi rispecchio completamente nei valori di indipendenza, trasparenza e efficacia della nostra ONLUS, e perché celebrare la vita significa farne il miglior uso possibile.

Vorrei solo che più organizzazioni là fuori facessero lo stesso. Se così fosse, con quei 400 miliardi di dollari raccolti ogni anno sradicheremmo la fame - la stessa fame che uccide 8000 bambini ogni singolo giorno - in tutto il mondo, e non per un anno, ma per sempre, creando opportunità, sostegno, e produzione a lungo termine nei Paesi bisognosi.

Per ora questa è un’utopia. Gli interessi in gioco sono troppi grandi e oscuri. La corruzione e la cupidigia sono, anche nel mondo dell’aiuto umanitario, rampanti. Ma dobbiamo arrivarci. E credo che questo sia un buon punto di partenza: togliere il fattore economico dall’equazione della cooperazione internazionale, ritornare alla carità, all’aiuto disinteressato. Riportare l’aiuto umanitario alla sua umanità originale. Dobbiamo e possiamo arrivarci, insieme.

Io continuo a sperare.