Smart worker o lavoratrici a domicilio?

Da “angeli del focolare” a “equilibriste”, cambiano gli appellativi, passano gli anni e si modificano le emergenze, ma le protagoniste no. Quelle restano sempre loro: le donne.

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Pinkypills via Getty Images

Questi mesi di emergenza hanno, inevitabilmente, portato a sdoganare lo smart working e l’home working. Modalità di lavoro che sembravano essere un miraggio fino a pochi mesi fa, e che ora paiono essere la nostra normalità e anche la nostra condanna.

Se fino a febbraio la maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici sognavano la possibilità di avere anche un solo giorno alla settimana di home working, ora, ci troviamo catapultati in una realtà in cui non è più il lavoro “smart”, agile quello che stiamo vivendo, ma una modalità lavorativa che ci sta intrappolando in una dimensione in cui non esiste più uno stacco tra il nostro tempo libero e quello produttivo.

Nulla di “agile”, dunque in questa modalità professionale, ma piuttosto un ritorno a qualcosa già noto e il cui ricordo non porta con sé alcun rimando positivo né nostalgia. Infatti, anziché godere dei vantaggi dello smart, pare in realtà di assistere a un ritorno del lavoro a domicilio. Un tuffo indietro in un passato che, volentieri, avremmo voluto lasciarci definitivamente alle spalle.

È come se una macchina del tempo ci avesse riportato di colpo negli anni Cinquanta e Sessanta, ma non quelli del boom economico, ma quelli del boom del lavoro a domicilio, preferito dai datori di lavoro perché consentiva loro di abbattere – e di molto - i costi della produzione, e venduto come una “fortuna”, soprattutto per le donne, perché permetteva loro di lavorare e contemporaneamente occuparsi della famiglia.

Lavorare da casa, un sogno che garantiva alle lavoratrici di godere di un’apparente autonomia economica e professionale, ma senza mai svestire i panni di moglie e madre. Un sogno che spesso, però, assumeva i contorni di un incubo.

Si calcola che nel 1957 fossero oltre 800.000 i lavoranti a domicilio, di cui l’80% erano donne, per lo più ex operaie di fabbrica, licenziate, per poi essere riutilizzate come manodopera a bassissimo costo. Lavoratrici subordinate e a cottimo, costrette dagli stessi datori di lavoro - che avrebbero dovuto assumerle come dipendenti - a registrarsi all’albo come “finte” artigiane e dunque obbligate a sobbarcarsi anche tutto il carico delle tasse.

Una piaga che nascondeva al suo interno lo sfruttamento e l’asservimento di centinaia di donne che da casa cucivano, lavoravano a macchina, confezionavano abiti, guanti, sciarpe, cappelli, maglie.

Le magliaie sono forse uno dei simboli più noto di questa forma di lavoro.

Giovani donne, attaccate alle loro macchine da maglieria, comprate a rate a suon di cambiali mensili, e costrette a lavorare a cottimo, da casa, per 10/12 ore al giorno, generalmente chiuse dentro a piccoli sgabuzzini, scantinati o cucinotti riattrezzati. Lavoratrici non assunte - precarie diremmo oggi – invisibili, perché isolate. Mute, perché prive di diritti e di tutele sindacali.

Erano i meravigliosi anni del boom economico, durante il quale però – non dimentichiamolo mai- tutto il carico di cura gravava ancora unicamente sulle spalle delle donne. E così quel lavoro a domicilio trasformava le donne in perfette equilibriste, capaci di barcamenarsi tra fili, maglie e stoffe; figli, pappe e tegamini.

Erano i mitici anni Cinquanta…  settanta anni fa. Eppure ricordano, in maniera assai preoccupante, anche questi primi mesi degli anni Venti del XXI secolo.

Save the Children, insieme all’Associazione Orlando di Bologna, ha appena presentato un rapporto intitolato: Le equilibriste: la maternità in Italia nel 2020, nel quale emerge con chiarezza come, ancora, le donne, in assenza di adeguate politiche di conciliazione e ora anche della scuola e dei servizi per l’infanzia - siano costrette a scegliere tra lavoro e vita familiare.

Se è vero che l’emergenza sanitaria ha riportato sia le donne che gli uomini all’interno delle loro case, è altrettanto vero che sono ancora quest’ultime a doversi trasformare in acrobate, destreggiandosi tra i compiti e i collegamenti on line dei figli, le spese per gli anziani, il lavoro, le lavatrici, le pulizie e la preparazione del cibo.

Un carico di cura che si somma a quello lavorativo e che si traduce nelle percentuali riportate dal rapporto, evidenziando come, su un campione di oltre mille madri e nelle famiglie più a rischio povertà, tutto ricada sulle spalle delle donne. Oltre la metà è da sola a occuparsi dei figli (51,7%) e a fare la spesa (50,3%), mentre pulire la casa, lavare i vestiti (l′80,2%), e cucinare (70,5%) paiono essere compiti unicamente femminili.

Un carico, dunque, che non ha nulla a che fare con quel sogno smart, ampiamente svaporato.

L’assenza di orari, la flessibilità, l’agilità di questo tanto agognato lavoro da casa, in molti casi ha già assunto i connotati di quel lavoro a domicilio contro il quale le donne tanto si sono battute nei decenni passati.

Ma le statistiche ci dicono di più. In seguito all’emergenza si calcola, infatti, che il 18% delle donne lavoratrici abbia chiesto la riduzione dell’orario di lavoro o stia cercando di ritardare il rientro, contro solo il 3% degli uomini. Questo a riprova di quanto sacrificabile sia il lavoro femminile, perché meno retribuito, meno stabile, meno prestigioso, meno qualificato, meno tutelato.

E alle orecchie ritorna di nuovo quel rumore metallico e cadenzato dello smacchinare metodico e incessante delle magliaie che, tra un punto dritto e uno al rovescio, trovavano il tempo anche per “mettere su” il brodo e inamidare il colletto della camicia del marito.

Veri e propri “angeli”, capaci di sacrificarsi e incarnarsi in soluzione a tutti i bisogni della famiglia e alle richieste dei datori di lavoro.

Da “angeli del focolare” ad “equilibriste”, cambiano gli appellativi, passano gli anni e si modificano le emergenze, ma le protagoniste no. Quelle restano sempre loro: le donne.