Dagli assistenti civici allo smart working, la bomba sociale del lavoro è innescata

by
https://img.huffingtonpost.com/asset/5ece1268220000af1c829704.jpeg?cache=aGCS1HA3ow&ops=scalefit_630_noupscale
bowie15 via Getty Images

“Smart working” è una di quelle parole magiche (quelli bravi direbbero “buzzword”) che risuonano in ogni dove in questo mondo post-Covid. Mentre colossi tech come Facebook e Twitter spingono a tutta forza su questo tema, il “Decreto Rilancio” rende obbligatorio per il datore accettarne la richiesta da parte di un dipendente con figlio sotto i 14 anni.

A condizione però che “tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione”. E qui, si direbbe, casca l’asino: quanti lavori possono effettivamente essere fatti da remoto? O detto altrimenti, quanti possono permettersi di lavorare e rischiare meno la salute stando a casa (e rimanere produttivi in caso di nuovo lockdown)?

Il mondo del lavoro, negli ultimi anni diviso soprattutto tra “stabili” e “precari”, rischia una nuova e per molti versi più pericolosa frattura; anzi, una tripartizione: chi ha un lavoro e lo può fare in buona sicurezza e magari a distanza; chi ha un lavoro ma non può farlo in totale sicurezza; e chi il lavoro non ce l’ha.

Semplificando ancora di più: chi può ragionevolmente sperare di mantenere lavoro e salute; chi lavoro ma non salute; e chi (almeno in parte) salute ma non il lavoro.

Partiamo da questi ultimi, i senza lavoro. Un gruppo già molto numeroso, ma le cui fila sono purtroppo destinate a aumentare drammaticamente nel prossimo futuro. Eppure, un gruppo sociale negletto, spesso trascurato dal dibattito pubblico, quasi fosse indesiderabile alla vista.

Pensate ai dibattiti degli ultimi giorni: quello sulla garanzia statale a FCA; quello sulla sicurezza nei luoghi di lavoro; quello sugli aiuti alle piccole imprese e professionisti… Persino quello sulla regolarizzazione dei migranti e sullo “sciopero dei carrelli”: tutte discussioni importanti e battaglie sacrosante, ma su chi il lavoro ce l’ha. Magari a rischio, degradante, sfruttato… Ma ce l’ha.

Tra inattivi e disoccupati, gli italiani senza lavoro sono oggi oltre 15 milioni e più del 40% della popolazione in età da lavoro. Queste persone non prendono uno stipendio, ma tantissime “lavorano”: sono infatti impegnate in azioni di cura familiare, di sostegno sociale o culturale che sono fondamentali per mantenere sana e funzionante la nostra società (e alleviare lo Stato da costi enormi).

Eppure, non solo sono perlopiù ignorati dal dibattito pubblico e dall’azione statale, ma vengono sempre più apertamente definiti “parassiti” oppure vengono tirati in ballo per fare i braccianti o gli assistenti civici, manco fossero pezzi d’arredamento da spostare a seconda delle stagioni e dei gusti. E sebbene potranno più facilmente stare lontani dal virus, povertà e marginalizzazione rischiano di far aumentare di molto per loro il rischio di contrarre altre patologie fisiche e psicologiche.

Passiamo quindi al secondo gruppo: quelli che il lavoro ce l’hanno, ma da qualche mese rischiano (ancora di più) la salute per farlo. Parlo dei milioni di lavoratori nei settori “essenziali” e che molto spesso non possono agire a distanza: quelli impegnati, per esempio, nella produzione alimentare, nella logistica, nella meccanica di base, nella cura sanitaria.

Alcuni di questi lavoratori (medici e infermieri per primi) hanno avuto nelle scorse settimane il loro “momento di gloria”; di riconoscibilità e riconoscenza sociale. Ma la maggioranza ha continuato a lavorare nell’ombra, con spesso una precarietà contrattuale che si andava ad affiancare a una crescente precarietà sanitaria e di sicurezza.

Questo gruppo, senza cui letteralmente non potremmo vivere e che si è trovato in prima linea contro il virus, è stato forse il più colpito da una certa retorica del lavoro, imperante negli scorsi anni e purtroppo ancora oggi dura a morire.

Quella retorica per cui il lavoro precario e mutevole, l’avanzamento tecnologico, la necessità di formarsi sempre, di essere sempre più produttivi e presenti, di avere o sviluppare competenze avanzate (particolarmente digitali, tecniche e scientifiche) e di saper lavorare per risultati e obiettivi, sono temi imposti come forze dirompenti e universali, a cui è sciocco anche solo pensare di resistere. “Inevitabilismo tecnologico” l’ha argutamente chiamato qualcuno.

Una retorica così imperante questa, così “metabolizzata” nel dibattito pubblico, da a volte uscire fuori dalla realtà. Oggi si parla di un “97% delle aziende italiane che usano lo smart working”, quando il 79% delle aziende italiane ha meno di 5 dipendenti e un altro 14% tra i 6 e i 15; si parla di competenze digitali da diffondere in ogni dove quando 3,8 milioni di persone (26% delle aziende) operano nella manifattura, 2,2 milioni nel commercio (15% delle imprese) e 1,5 milioni nell’agricoltura (10% delle aziende); si parla di scuola digitale e di pubblica amministrazione al 30-40% al lavoro a distanza, quando il 40% degli italiani non ha la banda larga e una famiglia su tre non ha computer o tablet in casa.

Come si pensa che un carrozziere con tre dipendenti possa lavorare in smart working? Che un camionista possa (e debba) riciclarsi nella app economy? A causa di questa retorica, questi lavoratori “essenziali” si sono spesso sentiti totalmente “superficiali”: esclusi da un mondo che nemmeno chiede, ma ritiene inevitabile che il lavoro oggi sia al contempo flessibile ma avanzato, e domani dominio dell’automazione e del digitale. In pratica, un mondo che offre loro uno stipendio (non di rado basso) per un lavoro (spesso faticoso e poco socialmente apprezzato) che oggi c’è, domani chissà, ma di certo dopodomani no, perché arriverà l’automazione a rubarglielo. E se accadrà sarà pure stata colpa loro perché non saranno stati in grado di restare al passo coi tempi.

E arriviamo quindi al terzo gruppo: il meno numeroso ma quello da anni sotto la luce dei riflettori; quello di chi più facilmente manterrà il lavoro e pure la salute, perché potrà farlo – in tutto o in parte - a distanza. Questo gruppo si è spesso immerso capo e piedi nell’inevitabilismo tecnologico, abbracciandolo nella speranza poter afferrare un brandello di un futuro meraviglioso e prossimo.

Se non che già da qualche anno la tela di questo radioso “sol dell’avvenire capitalista” ha cominciato a mostrare strappi (siamo nel 2020: dove sono le nostre auto che si guidano da sole? I droni che ci portano i pacchi in giardino? Le stampanti 3D in ogni casa? Ma soprattutto, perché lavoriamo sempre di più e siamo sempre più stressati?). Ora, con questa nuova crisi, questi piccoli strappi rischiano di diventare una lacerazione profonda.

Lo “smart working” (che poi spesso è tele-lavoro, ovvero il lavoro di prima ma fatto a casa) può sicuramente portare benefici per alcuni, ma per molti rischia di infrangere a picconate quello spesso muro tra “vita” e lavoro che molti di questi lavoratori si sono negli anni costruiti per sopravvivere alla retorica del #pushpushpush e dell’#alwayson. 

Il tempo per la corsa o per la palestra, per l’apericena o per lo shopping, per le serie TV o i consumi culturali… Insomma quei giardinetti recintati di evasione e sfogo vitale sono ora assediati da tempi domestici e lavorativi che si squadernano, si dilatano, si accavallano e si aggrediscono. Soprattutto per chi ha familiari da accudire, chi non ha una banda larga stabile o forti competenze digitali, chi fa fatica a lavorare da solo e per obiettivi, il lavoro da casa presentato come l’ennesimo inevitabile passo verso il nirvana dell’innovazione tecnologica potrebbe alla lunga essere la miccia che fa esplodere la pentola a pressione.

Tutte queste tensioni sociali, personali, culturali non saltano fuori da oggi: da anni le si può notare nella dialettica da “sfogatoio” nei social media, nel voto di protesta e “populista”, nei consumi sempre meno “culturali” e sempre più d’evasione intellettuale…

Ma tutti questi segnali sono stati, forse superficialmente, relegati a sottoprodotti della epidemica arretratezza culturale, dell’italica pigrizia, dell’impoverimento relazionale dovuto ai nuovi media e chissà cos’altro. Tutte cose che possono anche essere concause (ma anche conseguenze) di quel malessere, il quale però probabilmente aveva e ha causa prima nella narrazione dominante di un futuro “inevitabile” ma di cui molte persone sentono escluse.

La bomba sociale del lavoro, quindi, è innescata. Lo riconoscono anche sia la politica che le imprese: il nuovo presidente di Confindustria Bonomi e Matteo Renzi. Solo che la bomba non è “tradizionale”, ma “a grappolo”. Il suo innesco non è solo nelle fabbriche, tra gli operai, nei cantieri, nei lavoratori precari della “gig economy”, ma nel cuore e nelle menti di milioni di italiani. 

Mentre la frattura tra lavoro stabile e lavoro precario è profonda ma unica perché più o meno trasversale a tutti i settori, questa nuova frammentazione è potenzialmente più pericolosa perché si somma a disuguaglianze già pre-esistenti e sedimentate.

Questa bomba non si disinnesca quindi (solo) con il sostegno alla cassa integrazione o l’assistenzialismo più o meno ampio o diretto; né, tantomeno, spingendo sulla già ipertrofica retorica della digitalizzazione e dell’inevitabilismo tecnologico.

Si disinnesca anche e soprattutto cambiando il dibattito intorno al lavoro, portandolo più vicino alla realtà e smettendo di indicare casi eccezionali come modelli assoluti.

Riattivando chi è senza lavoro facendo leva sulle sue motivazioni più che sul senso di colpa; riconoscendo e incoraggiando il ruolo anche dei lavori “esecutivi” di cura, coltura e cultura; cominciando a parlare più di persone e di relazioni che di codici, metodi e macchine nel lavoro manageriale e nei servizi. E va fatto subito: le micce sono già accese.