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Walter Tobagi (1947-1980) con il figlio Luca nel 1979; dietro, a sinistra, Ferruccio de Bortoli (foto di Uliano Lucas)

Walter Tobagi, il figlio Luca: «La memoria viva nasca in tutti noi»

Da mercoledì 27 maggio in edicola con il «Corriere» il libro dedicato al giornalista assassinato quarant’anni fa. Qui un intervento di suo figlio. Giovedì 28 l’anniversario

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Giovedì 28 maggio ricorre il quarantesimo anniversario dell’assassinio di mio padre. Dopo così tanto tempo, la situazione in cui siamo vissuti negli ultimi anni mi spinge a fare tre riflessioni strettamente legate fra loro.

La prima riguarda il contesto sociale. Avevo già avuto modo di notare, negli ultimi dieci anni, come alcuni aspetti del mondo in cui viviamo non fossero poi così cambiati rispetto al periodo in cui mio padre è morto. Arrivati a quest’anno, tuttavia, l’involuzione, per alcuni aspetti, è stata talmente profonda che a mio parere ricorda pericolosamente il contesto di «lacerazione sociale e disprezzo dei valori umani» che mio padre aveva provato, con il suo lavoro, a contrastare e che, di fatto, è stato propedeutico alla sua morte. Chi è vissuto negli anni Settanta può ricordare bene il clima di tensione che si respirava. Episodi di violenza erano parte della cronaca quasi ogni giorno. Anche un bambino, com’ero io all’epoca, poteva capirlo. Sinceramente non avrei pensato di ritornare a percepire un disagio simile a quello nel nostro Paese, ma forse non dovrei essere sorpreso, data la quantità di nostalgici di quel periodo e del suo clima di «partecipazione».

Oggi per fortuna non abbiamo episodi di violenza fisica come quelli dell’epoca e mi auguro di cuore che non ritornino. Ma negli ultimi anni il degrado delle abitudini nella gestione di alcune relazioni sociali, a cominciare dal dibattito politico e pubblico, è stato tale da farmi percepire il rischio di un ritorno della violenza come concreto. È diventato raro assistere a una discussione che non degeneri in rissa verbale, con i suoi protagonisti che urlano uno contro l’altro. L’insulto e la presa in giro irrispettosa non sono più l’eccezione, ma la regola. Sono il registro di conversazioni pubbliche che progressivamente hanno sdoganato l’idea che per ottenere un applauso, un voto o qualsiasi forma di consenso, si possa fare leva sugli istinti, anche i più bassi, delle persone, anziché sulla ragione. Che fare fatica per cercare soluzioni articolate a problemi complessi, o forme di interazione con gli altri rispettose e che permettano di crescere e migliorare, siano inutili vezzi da lasciare a chi può permetterselo perché non ha null’altro da fare.

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Il volume «Poter capire, voler spiegare. Walter Tobagi quarant’anni dopo», a cura di Giangiacomo Schiavi, è in edicola con il «Corriere» il 27 maggio al prezzo di euro 8,90 più il costo del quotidiano

Non è così. Le parole hanno un grande valore. In un quadro che mi pare oggettivamente migliore di quello di quaranta o cinquant’anni fa, ma nel quale emergono nuove sacche di disagio sociale, non dobbiamo sottovalutare il potere dell’esempio che i comportamenti pubblici possono avere. E quando dico pubblici non intendo solo quelli dei personaggi pubblici, ma anche quelli privati, di ognuno di noi, esercitati in pubblico, di fronte ad altri. Perché la violenza verbale è una brutta cosa, ma ancora peggio è pensare che il confine che separa la violenza verbale da quella fisica possa avere come argine principale l’autocontrollo dei singoli in un ambiente nel quale certe azioni potrebbero considerarsi, se non giustificate, comunemente accettabili. In un contesto come quello di oggi mio padre morirebbe ancora. Finirebbe isolato. Osteggiato, come è accaduto da parte di qualcuno quarant’anni fa. Oggi come allora, le voci di chi ha l’ambizione di cambiare il contesto con gradualità, serietà, capacità e impegno sono soffocate da chi si limita a urlarvi sopra più forte slogan vuoti che promettono rivoluzioni che, se non impossibili, appaiono molto improbabili a chiunque voglia applicare un po’ di buon senso e di buona educazione. È servita una pandemia per interrompere temporaneamente la tendenza e concentrarci su un’emergenza più urgente.

Per questo sono grato a chi ha voluto, negli anni, ricordare pubblicamente mio padre, ma credo che farne memoria debba essere innanzitutto una questione privata. Perché il cambiamento che serve, il «mutamento della coscienza collettiva» che mio padre evocava in una lettera a mia madre che è stata resa pubblica, non può che partire dai singoli. Dalla volontà di ciascuno di non arrendersi a credere che fare le cose bene o male sia lo stesso. Essere competenti o incompetenti sia lo stesso. Cercare scorciatoie per evitare di fare il proprio dovere fino in fondo e svolgere un lavoro nel modo migliore sia lo stesso. Seguire le regole, piccole e grandi, per la nostra convivenza civile o non seguirle sia lo stesso. Non è lo stesso.

La seconda riguarda la memoria e i valori. Giustamente, negli ultimi decenni, è stato svolto un grande e meritorio lavoro di ricostruzione, memoria e testimonianza. Su tante cose: ci sono molte pagine buie nella storia, anche recente. Ora sappiamo di più sul passato. Una maggiore conoscenza è un bene, soprattutto quando si tratta di portare alla luce fatti il meno possibile filtrati dalle opinioni e dall’emotività personali. Molte persone si sono dedicate a questo lavoro di scavo, di recupero dei fatti, di testimonianza, e a loro va la mia personale riconoscenza, tanto maggiore quanto più accurato, esteso e disinteressato è stato il loro impegno. Testimoniare, informare, raccontare storie ed eventi senza cercare di condizionare in modo inopportuno è infatti un compito difficile e faticoso, che richiede capacità, competenza ed equilibrio.

Credo che oggi siamo di fronte a una sfida diversa, che dobbiamo inquadrare correttamente per riuscire ad affrontarla con buone probabilità di successo. È molto impegnativa, perché riguarda la costruzione dei sistemi di valori individuali che formano la base dei comportamenti. Penso che parte dell’imbarbarimento e del degrado di cui parlavo prima sia frutto di un forte disallineamento di valori fra le diverse persone e gruppi sociali. La cultura, l’educazione, la memoria sono parte integrante del processo di costruzione di un’identità personale e del sistema di valori di ciascuno di noi, ma non sono tutto. E soprattutto non sono, di per sé, i valori e non bastano a crearli. Provo a spiegarmi meglio con esempi.

Negli ultimi tempi abbiamo assistito a gravi rigurgiti di antisemitismo. Un recente rapporto Eurispes ha mostrato un’inattesa diffusione di convinzioni negazioniste in una minoranza — sempre troppo grande — della popolazione. Temo che il problema non sia la mancanza di conoscenza. La memoria e la testimonianza possono trasformare il passato da qualcosa di astratto in qualcosa di concreto, in carne e ossa, che ormai da almeno trent’anni fa parte del bagaglio di conoscenze degli italiani, anche giovani. Però non è bastato. Sono convinto che chi oggi ha convinzioni o comportamenti antisemiti sia, nella grande maggioranza dei casi, consapevole, almeno in modo superficiale, di ciò che è accaduto nel passato, delle deportazioni e dell’Olocausto. Paradossalmente anche chi lo nega deve conoscerlo. La questione è che probabilmente non gli interessa. Se uno non ritiene che certi eventi siano tragedie orribili, comportamenti disumani, da evitare ad ogni costo, la memoria, da sola, non può fare molto. Bisogna capire che cosa possa portare donne e uomini ad avere determinate convinzioni, e operare perché possano modificare il proprio sistema di valori, in modo da cambiarle. Ho paura che troppo spesso noi confondiamo la memoria con i valori. Scambiamo comportamenti che rivelano l’assenza di un certo tipo di valori con la mancanza di conoscenza, che si può almeno cominciare a colmare con la memoria e la testimonianza. Ma si tratta di situazioni molto diverse. Sentire giovani liceali inneggiare al terrorismo, evocare in cori il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, trovare scritto sui muri delle scuole che «dopo gli anni di piombo solo anni di m....», significa evidentemente che non ignorano il passato. Lo rievocano con nostalgia, anche se non è dato sapere se si tratti di parole vuote, di slogan o di convinzioni più profonde.

Non si può mai sapere davvero che cosa passi nella testa e nell’animo degli altri. Ma se oggi molte persone sono più propense che in passato a svalutare la competenza, a dubitare dei fatti, dei dati, dell’evidenza più che delle proprie opinioni, qualche domanda bisogna porsela. Negazionisti, complottisti a oltranza, antivaccinisti, nostalgici di un passato triste mi sembrano forme diverse di uno stesso fenomeno. Non so che cosa suggerire per contrastarlo. Un ruolo e una responsabilità importanti li hanno in primo luogo le famiglie, poi le scuole, i rappresentanti delle istituzioni, i personaggi pubblici. Tutti coloro che pensano che il progresso civile passi per comportamenti non violenti e rispettosi degli altri, anche verbalmente, devono metterli in pratica. Devono poter essere osservati. La mia piccola regola è che si educhi con l’esempio prima che con le parole. Che siano i comportamenti a rivelare i valori e le preferenze (sì: avere studiato economia in questo caso aiuta).

Non sono concetti originali e anche mio padre li aveva espressi, parlando dei suoi genitori. Ma sono veri. C’è sempre qualcuno che ci osserva, a cominciare dai nostri figli, che dovrebbero essere il pubblico più importante, e dalle altre persone che ci sono vicine, alle quali di solito teniamo. È anche importante capire che non si è soli in questo sforzo e che tutti possiamo fare qualcosa per sostenere gli altri. Anche un gesto che sembra piccolo a chi lo compie, una parola semplice, ma che dimostra cura e gentilezza, possono avere un valore molto grande per chi li riceve. Sapere che c’è qualcuno che, anche in modo indiretto, condivide il nostro impegno può moltiplicare l’energia, qualunque cosa si faccia. Per quanto mi riguarda, non ho parole per dire quanto fondamentale sia stata in tanti anni la vicinanza di mia moglie e il suo lavoro quotidiano e incessante per crescere i nostri figli nei valori di impegno, responsabilità, libertà, disciplina in cui crediamo, come pure nella volontà di apprezzare le cose belle che la vita offre, e per avermi sostenuto nel cercare di metterli in atto concretamente nella mia vita. E in altri momenti sono stato fortunato ad avere vicino persone che sono state in grado di aiutarmi in alcune situazioni difficili.

La terza considerazione riguarda l’onestà intellettuale e la capacità di impegnarsi senza schierarsi, senza adesioni ideologiche. È una delle lezioni più importanti che mi ha lasciato mio padre con il suo esempio e per le quali ancora oggi lo ammiro di più. Il desiderio di essere accettati, magari parte di un gruppo, è umano e serve a farci sentire bene. Ma se il prezzo da pagare per questo, soprattutto quando è coinvolta la possibilità di esprimere il nostro pensiero o mettere all’opera le nostre capacità, è l’adesione a una dottrina, un’ideologia, un sistema di convinzioni e di credenze che non è nostro, ma di qualcun altro, è troppo alto. Perché ci costringe a schierarci, non ci lascia più liberi, ci toglie lucidità e rischia di sacrificare il rispetto per le vite degli altri in nome dell’ideologia. Un anno fa ho visto la replica di un’intervista del 1994 della Bbc, sempre considerata un esempio eccellente di servizio pubblico e di informazione, al grande storico Eric J. E. Hobsbawm (1917-2012), all’epoca della pubblicazione del suo ottimo saggio Il secolo breve. Essendo stato Hobsbawm iscritto per decenni al Partito comunista, il suo intervistatore gli ha domandato come avesse potuto conciliare la sua attività di storico con l’accettazione di atti di repressione violenta e illiberale da parte dei regimi comunisti in vari Paesi (che Hobsbawm disapprovava). La risposta è stata che anche per questo motivo aveva scelto di non occuparsi professionalmente dell’Unione Sovietica. E, dopo un’ampia e ragionata conversazione su tali temi, di fronte alla domanda diretta se perseguire l’obiettivo del «radioso avvenire» che il comunismo prometteva valesse i milioni di vite che erano stati sacrificati apparentemente per tale scopo, la risposta è stata un laconico monosillabo: yes. Sì.

Ecco, io invece penso di no. Sono convinto che, nonostante le spiegazioni, nessuna ideologia valga tutte quelle vite umane. Nemmeno una vita. Non quella di mio padre, né quella di nessun’altra persona. La violenza politica è violenza, ma è anche politica. Forse sarebbe giunto il momento di convincersi che, quando la storia ci mette di fronte a certi avvenimenti, bisognerebbe trovare il coraggio di ammettere che si tratta di idee e ideologie sbagliate, non basta dire che qualcuno abbia commesso errori nell’applicarle, o che alcune parti di esse possano portare a risultati positivi. Le persone sono libere di scegliere di spendere la propria vita per i valori in cui credono, ma questo non dà ad altri il diritto di togliergliela con la violenza. Se ci si lascia condizionare dall’appartenenza o dal rifiuto ideologici al punto di abbracciare un estremo pur di evitarne un altro, se si accetta di smettere di considerare le persone come esseri umani, ma le si trasforma in simboli, pedine, oggetti politici, ciò che è accaduto a mio padre potrà continuare a succedere.

Parte del valore dell’esempio di mio padre per me consiste nella scelta di non tirarsi indietro. Non mi riferisco al fatto che abbia pagato questa decisione con la vita. È riuscito a coltivare e testimoniare i suoi principi e le sue convinzioni nella sua vita personale e con il suo impegno professionale, senza che questo scadesse in uno schieramento che avrebbe compromesso la sua obiettività, il suo rigore e la sua umanità. Che alla fine sono le ragioni per le quali è stato ucciso. Non ha rinunciato ad applicarsi per capire il tempo in cui viveva. Non ha rinunciato alle sue opinioni politiche, ma ha scelto di rifiutare un’appartenenza politica ufficiale per poter lavorare bene e sentirsi libero. Per conoscere e svelare le dinamiche con cui i terroristi speravano di condizionare la vita del nostro Paese e togliere a chi lo leggeva almeno un po’ della paura che nasce dalla difficoltà a interpretare la realtà.

Credo che finché non ci sarà una volontà individuale diffusa di muovere passi decisi in queste direzioni, persone come mio padre potranno ancora trovare strade sbarrate e ostacoli sul proprio cammino. Forse dovranno continuare a pagare con la vita il proprio impegno e la scelta di non tradire i propri valori e la propria coscienza.

Negli anni scorsi ho cercato di sottolineare gli aspetti, ancora attuali, legati alla sua vita. Quest’anno particolare, segnato da una pandemia che ricorderemo e che giustamente richiede la massima attenzione, con le misure di contenimento mette alla prova lo spirito civico e il senso di responsabilità di tutti. Ho cominciato a scrivere queste riflessioni intorno al compleanno di mio padre. Forse, in un 2020 dalla ricorrenza rotonda della sua scomparsa, tutte le persone che lo vogliono ricordare potrebbero fargli un regalo e domandarsi una volta di più che cosa possano fare, una per una, per creare un contesto quotidiano di rispetto reciproco, per evitare che certe situazioni, che in qualche misura hanno contribuito a creare le condizioni per la sua morte, si ripetano.

Un esempio di giornalismo civile: il volume a cura di Giangiacomo Schiavi

Esce mercoledì 27 maggio in edicola con il «Corriere della Sera» il libro Poter capire, voler spiegare. Walter Tobagi quarant’anni dopo, curato da Giangiacomo Schiavi, al prezzo di euro 8,90 più il costo del quotidiano. Il volume, che si apre con gli interventi introduttivi di Ferruccio de Bortoli, Giangiacomo Schiavi, Benedetta Tobagi e Venanzio Postiglione, resterà in edicola per un mese. Contiene un’antologia di articoli scritti da Walter Tobagi sul terrorismo, sui problemi del lavoro, sul dibattito intellettuale. Ciascun pezzo è accompagnato da un contributo attualizzato sullo stesso tema: le firme sono quelle di Umberto Ambrosoli, Pierluigi Battista, Giovanni Bianconi, Isabella Bossi Fedrigotti, Marzio Breda, Aldo Cazzullo, Francesco Cevasco, Paolo Di Stefano, Dario Di Vico, Luigi Ferrarella, Antonio Ferrari, Paolo Foschini, Piergaetano Marchetti, Fiorenza Sarzanini.