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I 90 anni (a muso duro) di Clint Eastwood, l’attore che per Sergio Leone «era un blocco di marmo»

Una messa in scena senza sbavature, senza compiacimenti né fronzoli (l’opposto di Tarantino, per intenderci), dove l’economia di mezzi è il segreto della sua efficacia

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«Un blocco di marmo». Sergio Leone non usava sfumature per definire Clint Eastwood, nemmeno quando erano passati vent’anni da Per un pugno di dollarie il Joe di quel film era diventato un attore e un regista potente e rispettato. Il suo giudizio non lascia dubbi: quando recita, scriveva per American Film nel 1984, «Clint si cala dentro un’armatura e ne abbassa la visiera con uno scatto rugginoso. Precisamente quella visiera abbassata è il suo personaggio. E anche lo scatto rugginoso, secco come un Martini dell’Harry’s Bar». Ingeneroso? Forse, ma bisogna pensare che il paragone col marmo serviva al regista italiano per sentirsi un po’ come Michelangelo che nella pietra sapeva vedere quello che cercava. E ognuno ha diritto alla sua dote di narcisismo, a cominciare dai registi. Eastwood invece questo difetto non l’ha mai avuto, nemmeno dopo gli Oscar che ha vinto o sfiorato: quattro come regista (due vinti, per Gli spietatie Million Dollar Baby; due no, per Mystic Rivere Lettere da Iwo Jima) e uno solo come attore (Gli spietati, però mancato). Forse, allora, ha ragione Leone e dirigere gli viene meglio che recitare.

In effetti, a ripensare alla sua carriera d’attore, adesso che sta per compiere 90 anni (è nato il 31 maggio 1930, a San Francisco) ti sembra che la sua faccia non sia mai cambiata molto, solo con qualche ruga in più. Come attore ha interpretato 71 film, da La vendetta del mostro(dove non è neppure citato nei titoli) fino a Il corriere – The Mule, e non ha mai perso quel suo sguardo affilato che dice molto senza confessare niente, quel sorriso un po’ sprezzante e un po’ di sfida da cui non uscirà mai un palpito o un sospiro, nemmeno di fronte all’amore di Meryl Streep (c’è stato bisogno che la pioggia gli rigasse il volto, nel finale dei Ponti di Madison County, perché desse l’impressione di commuoversi), sempre sul punto di sibilare Go ahead, make my day (Avanti, da’ un senso alla mia giornata) come l’ispettore Callaghan.

Ma c’era anche qualcosa che spingeva l’Eastwood regista verso un cinema diverso, controcorrente se pensiamo agli «eccessi» degli anni Settanta e Ottanta quando ha cominciato a dirigere, e che sarebbe diventata non solo la sua cifra (quante sono le «cifre» cinematografiche i cui conti alla fine non tornano!) ma un vero e proprio stile. Da autore. «A me piacciono le storie» ha spiegato al critico Christopher Frayling per giustificare il suo allontanamento da Sergio Leone, a cui disse no per C’era una volta il West (nella parte che fu poi di Bronson) e C’era una volta in America (nel ruolo di un irlandese): «Lui è andato verso film epici più grandiosi, io verso film più piccoli, verso storie più personali».

I film di Clint Eastwood, quelli che ha diretto e interpretato e quelli, sempre meno numerosi, dove ha solo recitato, sono per prima cosa delle «belle storie», solide, strutturate, appassionanti. Con cui potesse sentirsi in sintonia, ma dove soprattutto potesse misurarsi con quello che più gli interessava: mettere in immagini un racconto avvincente. E allora non era importante il genere: qualcuno avrebbe scommesso su un Eastwood romantico? Su un Eastwood giallista? Su un Eastwood melodrammatico? Nelle sue 41 regie (fino ad ora) c’è di tutto, dal film processuale (Sully) a quello di fantascienza (Space Cowboys), dal film musicale (Jersey Boys) a quello sportivo (Invictus – L’invincibile) perfino a quello spiritualista (Hereafter). Non tutti riusciti alla perfezione, ma anche con un bel pugno di opere eccellenti (Bird, Un mondo perfetto, Mystic River, Million Dollar Baby, Gran Torinoper citare solo le vette) a riprova che dietro l’eclettismo dei soggetti c’è un regista che ha imparato la lezione dei classici, quella di una messa in scena senza sbavature, senza compiacimenti né fronzoli (l’opposto di Tarantino, per intenderci), dove l’economia di mezzi è il segreto della sua efficacia. E se ogni tanto ci fa accapponare la pelle per le sue prese di posizione politiche (inventandosi un dialogo con una sedia vuota per portare voti a Donald Trump) non possiamo che ricordare quello che ci ha insegnato il vecchio Wilder: nessuno è perfetto!