Strage di Sant’Anna di Stazzema, i sopravvissuti Enrico Pieri e Enio Mancini nominati cavalieri della Repubblica tedesca
La lettera dell’ambasciata tedesca, l’emozione e i ricordi drammatici dell’eccidio nazista del 12 agosto 1944: «Correvamo tra i morti, cadaveri sfigurati e fumanti»
by Marco GasperettiLa notizia della nomina a cavalieri dell’ordine al merito della Repubblica federale della Germania è arrivata a Enrico e a Enio con una lettera dell’ambasciata tedesca. Non è stata una sorpresa assoluta, altri riconoscimenti erano stati conferiti loro da quella nazione, e nel 2013 l’allora presidente tedesco Joachim Gauck, arrivato a Sant’Anna di Stazzema insieme a Giorgio Napolitano per rendere onore alle 560 vittime, tra le quali 130 bambini, dell’eccidio nazista (qui il racconto della strage nelle pagine del Corriere), li aveva incontrati e abbracciati. Però, raccontano Enrico Pieri ed Enio Mancini, superstiti della strage del 12 agosto 1944, l’emozione e la commozione è stata fortissima. «È un onore, da italiani, essere diventati cavalieri della Repubblica tedesca e siamo grati al presidente Frank Walter Steinmeier per questa decisione», dicono.
Inevitabilmente il pensiero è volato indietro nel tempo. Enrico Pieri, 86 anni, presidente dell’Associazione martiri di Sant’Anna, era un bambino. Si salvò dalla furia assassina dei soldati della sedicesima divisione SS Panzer perché si nascose nel sottoscala del casolare sulle colline di Sant’Anna, Alta Versilia e da lì visse il peggior incubo a occhi aperti della sua vita: il massacro dei suoi familiari. Furono trucidati le sorelle Luciana e Alice, di 5 e 12 anni, i nonni Gabriello e Doralice, il papà Natale e la mamma Irma, incinta di 4 mesi. I nazisti, accompagnati a Sant’Anna da fascisti italiani, non risparmiarono neppure, Evelina, una giovane madre che stava partorendo e il suo piccolo.
Enio Mancini, 82 anni, già curatore del Museo della resistenza di Sant’Anna di Stazzema. Anche lui, bambino di 6 anni, è stato testimone di quel massacro (qui le immagini dell’epoca). Insieme all’orrore, custodisce (gelosamente, dice lui), due ricordi “forti”. Il primo è quello degli italiani con il volto coperto da fazzoletti che guidarono i nazisti come cani assassini. «Senza di loro le Ss non avrebbero potuto circondare il paese. – raccontò anni fa al Corriere della Sera -. Me li ricordo bene. Io ne ho visti quattro ma erano molti di più. Due avevano vestiti borghesi, due la divisa delle Ss, parlavano con un’inflessione tipica del dialetto versiliese».
Il secondo ricordo indelebile di Enio è di un soldato nazista. «Avrà avuto meno di vent’anni, i capelli biondi a spazzola, guidava il nostro gruppo, una ventina di persone. Aveva avuto ordini di ammazzarci tutti a colpi di mitra e poi di bruciarci con il lanciafiamme. Lui aspettò che gli ufficiali se ne andassero. Io e mio fratello piangevamo terrorizzati. Ci guardò e con l’indice della mano destra sul naso ci disse di stare zitti. Poi ci indicò una via di fuga. Iniziammo a correre increduli, poi dietro di noi sentimmo una raffica di mitra. Strinsi la mano a mia madre, credevo di essere già morto. Mi voltai e vidi quel tedesco sparare in aria, ingannava i suoi commilitoni, faceva finta di ucciderci. Mi sembrò che sorridesse. L’ho cercato tutta la vita, inutilmente». Decenni dopo Mancini è riuscito a scoprire il nome di quel soldato: si chiamava Peter Bonzelet (morto nel 1990) ed ha potuto riabbracciare il nipote nel 2010.
L’incubo per Enio Mancini cominciò alle sei del mattino. Il suo racconto è così vivido da cancellare in un attimo tutti gli anni trascorsi: «Attilio, il mio babbo, ci buttò giù dal letto urlando. ‘Stanno arrivando i tedeschi, rastrellano gli uomini per portarli in Germania. Mi nascondo nel bosco con gli altri’. Voi state in casa e pregate, ci disse. Ci vestimmo di corsa e scendemmo in cucina. Cinque minuti e arrivarono. Buttarono giù la porta e ci portarono in un’aia. C’erano altre persone, anche sfollati, tanti bambini. Eravamo sotto il tiro di una mitragliatrice. Poi l’incontro con il giovane tedesco che ci lasciò fuggire. Fino a quando non sono stato adulto ho creduto che quel ragazzo biondo fosse un angelo. Il massacro lo vidi alcune ore più tardi. Andai con la mamma a cercare i parenti. Correvamo tra i morti, cadaveri sfigurati e fumanti perché i nazisti li avevano bruciati con il lanciafiamme. Tra le cataste i miei amici di scuola. Dal terrore non riuscì neppure a piangere».
Non è escluso che la cerimonia dell’onorificenza sia organizzata non a Berlino ma a Sant’Anna di Stazzema. È stato Enrico Pieri a chiederlo all’ambasciata tedesca («Sono vecchio non me la sento di affrontare un viaggio così lungo») e sembra ci sia stato un primo sì. Pieri ha un figlio, Massimo, nato in Svizzera dove la famiglia era emigrata, oggi insegnante a Basilea. Le autorità gli chiesero a quale scuola, tedesca o francese, volesse iscrivere il bambino. «Scelsi la prima e fu l’inizio della mia riconciliazione con la Germania nonostante lo sterminio della mia famiglia - racconta con orgoglio -. Oggi mi sento figlio dell’Europa. I popoli europei sono tutti miei fratelli»