Coronavirus, problemi respiratori cronici per il 30% dei guariti
Polmoni a rischio per 6 mesi. Tra gli scienziati ci sono timori che possa verificarsi un’evoluzione in fibrosi polmonare con la compromissione della qualità della vita. Ma non sono le uniche conseguenze a lungo termine: il nodo dei problemi psichiatrici
by Cristina MarroneDopo l’infezione da Covid-19 i polmoni sono a rischio per almeno 6 mesi ed il 30% dei guariti avrà problemi respiratori cronici. È il nuovo preoccupante scenario che arriva dal meeting della Società Italiana di Pneumologia. Gli esiti fibrotici, cioè la cicatrice lasciata sul polmone dalla malattia di Covid-19, possono comportare un danno respiratorio irreversibile e costituiranno una nuova emergenza sanitaria per cui bisognerà rinforzare le Pneumologie. Le conseguenze a lungo termine sono un rischio soprattutto per chi ha trascorso un lungo periodo in terapia intensiva. Quando l’infezione è superata, il ritorno alla vita «pre Covid» può essere un percorso tortuoso e non sempre scontato. Le conseguenze legate al prolungato allettamento, le patologie pregresse di cui spesso i pazienti che si sono aggravati soffrono rendono la riabilitazione motoria e respiratoria indispensabile.
Difficoltà comuni
I pazienti più debilitati sono quelli che hanno trascorso più tempo in terapia intensiva, ma anche chi è rimasto ricoverato almeno due settimane nei reparti di malattie infettive o pneumologia ha quasi sempre bisogno di un periodo di riabilitazione. Intensità e durata della fisioterapia, in particolare respiratoria, dipendono dall’età e, in linea generale, da quanto è durato il ricovero. «Quello che ci preoccupa - aggiunge Marta Lazzeri, presidente dell’Associazione Riabilitatori dell’Insufficienza Respiratoria (ARIR) e fisioterapista all’ospedale Niguarda di Milano - sono le conseguenze a lungo termine per i pazienti più gravi, che hanno subito una polmonite importante, perché temiamo ci possa essere un’evoluzione in fibrosi polmonare, con cicatrici permanenti ai polmoni. Questa malattia ha ancora moltissime incognite. Chi è stato gravemente malato tornerà a una normale attività fisica? Recupererà l’attività lavorativa? La qualità della vita sarà influenzata a lungo o per sempre dalla malattia?». I pazienti più gravi reduci dal Covid-19 sono spesso debilitati, hanno difficoltà nei movimenti, faticano a respirare e devono imparare di nuovo queste abilità. La malattia mette infatti a dura prova la muscolatura respiratoria che diventa meno efficiente. «Dopo le dimissioni questi pazienti raccontano di sentirsi spesso stanchi, di faticare anche solo a farsi la barba o una doccia», racconta Marta Lazzeri».
Le evidenze scientifiche
I timori sono basati su evidenze scientifiche. Due lavori pubblicati sul New England Journal of Medicine hanno studiato una popolazione di soggetti giovani (età mediana di 45 anni) con nessuna o solo una precedente comorbidità ricoverati in terapia intensiva per ARDS (Acute Respiratory Distress Syndrome), condizione di gravissima compromissione polmonare con valori di ossigenazione drammatici che necessitano di un prolungato ricovero in terapia intensiva a cui possono andare incontro anche i casi più gravi di Covid-19. I pazienti di questi studi sono stati monitorati per cinque anni: a un anno di distanza, pur migliorando, non hanno recuperato i livelli pre-evento acuto. Nel test del cammino di 6 minuti non sono riusciti a percorrere i metri richiesti, alcuni vanno in debito di ossigeno (il passaggio di ossigeno a livello alveolare resta inferiore ai limiti di normalità), persistono debolezza e affaticabilità. Meno del 50% ha ripreso l’attività lavorativa e anche a distanza di 5 anni il recupero non è completo. «Nei pazienti che sviluppano infezione da Covid-19 si teme che a queste conseguenze se ne possano aggiungere altre, altrettanto gravi, a carico del polmone, specialmente nei soggetti più severamente interessati» spiega la dottoressa. Altri lavori scientifici mostrano infatti l’evoluzione in fibrosi polmonare in presenza di polmonite virale MERS-CoV, “cugina” del Covid-19. L’indagine radiologica, eseguita a sei mesi dall’esordio della MERS, su 36 pazienti tra i 21 e i 73 anni ha evidenziato un quadro di fibrosi polmonare in circa un terzo dei soggetti colpiti.
Il rischio di un danno polmonare permanente
«Anche in alcuni pazienti affetti da Covid-19, i più gravi – osserva Lazzeri – si osserva alle TAC di controllo eseguite ancora in fase di ricovero ospedaliero una evoluzione verso quadri di fibrosi polmonare. Esiste quindi il timore che alcuni di loro possano sviluppare un danno polmonare permanente e che questo possa poi limitare le loro capacità funzionali e la loro qualità della vita, oltre che avere ripercussioni sulla spesa sanitaria». «Per questo motivo - aggiunge Michele Vitecca, responsabile della Pneumologia Riabilitativa ICS Maugeri di Brescia e vicepresidente AIPO (Associazione italiana pneumologi ospedalieri) - nei prossimi mesi sarà molto impegnativo il lavoro delle equipe pneumologiche che dovranno studiare l’enorme numero di pazienti sopravvissuti in termini di residuo del danno polmonare per poi impostare un ciclo riabilitativo o un attento monitoraggio clinico per un completo recupero delle condizioni pre polmonite».
Ambito psicologico
E i problemi potrebbero non fermarsi qui. Agli aspetti fisici si aggiungono quelli emotivi come disorientamento e la perdita di gusto e olfatto
che possono perdurare. Secondo uno studio pubblicato su Lancet Psychiatry, i lunghi periodi trascorsi in terapia intensiva possono aumentare il rischio di delirio, agitazione e confusione e conseguenti problemi di salute mentale, anche se non è chiaro, conclude lo studio, se l'attuale pandemia potrà influenzare a lungo termine la salute mentale dei pazienti più gravi.
Il delirio
La maggior parte dei pazienti, in particolare quelli con sintomi lievi, non avranno problemi di salute mentale. Delirio e confusione mentale possono però essere comuni tra i pazienti ospedalizzati come è emerso nello studio di Lancet Psichiatry in cui i ricercatori revisionato 70 studi sul tema che hanno riguardato complessivamente 3500 pazienti colpiti dal SARS-CoV-2 e per confronto dal virus della SARS e dal virus della MERS in passato. Diretto da Jonathan Rogers, del Wellcome Turst presso la University College London, lo studio offre una visione ancora molto preliminare di quello che può essere il reale impatto del nuovo coronavirus sulla salute mentale dei pazienti. Stando a quanto riscontrato durante la SARS e la MERS, non è escluso che anche con la sindrome Covid i pazienti siano esposti al rischio di sintomi d’ansia, cali di memoria, sintomi depressivi, e anche da stress post-traumatico a breve e lungo termine. Gli esperti ipotizzano che il virus SARS-CoV-2 possa impattare sulla salute mentale in maniera diretta con diverse modalità: può infettare il sistema nervoso centrale, può danneggiarlo come conseguenza della carenza di ossigeno cui i pazienti gravi vanno incontro, può danneggiarlo attraverso la reazione immunitaria scatenata dal virus. Serviranno nuovi studi, concludono gli esperti, per valutare meglio l’impatto a breve e lungo termine del SARS-Cov-2