Coronavirus, la quarantena infinita padre, madre e due figli in trappola: «Siamo guariti, nessuno ci libera»
Le «tre T» del premier Giuseppe Conte: testare (i casi probabili), tracciare (i loro contatti), trattare (i malati). Ma, tra burocrazia e ritardi, un’intera famiglia lombarda è in trappola da settimane
by Sara Bettoni e Gianni SantucciQuel 18 aprile, dopo tre settimane col padre malato (quindici giorni di febbre a 40, polmonite, ricovero in ospedale, bombardamento di farmaci, e infine la guarigione), le «tre T» sono piombate come una gabbia kafkiana sulla famiglia del signor Paolo M., 50 anni, milanese. E hanno trascinato tutti, moglie e due figli adolescenti, 12 e 15 anni, in un gorgo di quarantene a catena, incrociate e sovrapposte: in parte già iniziate, in parte da fare. E diluite in un tempo indefinito, dettato dagli enigmi di una burocrazia sanitaria che si muove a ritmi diversi per ognuno dei componenti della famiglia. Sono tutti guariti da oltre un mese: ma restano «sotto sequestro» di chiamate random per fare i test (figlio il 18 maggio, figlia ai primi di giugno, madre chissà), e di minimo due settimane per aver i referti dei tamponi. E dunque prima che il signor M. e congiunti, ormai pienamente ristabiliti in salute, possano tornare tutti a uscire di casa e avere una normale vita sociale, passerà ancora oltre un mese. Probabilmente di più. «Fine pena»: forse, a inizio luglio. Una famiglia «sommersa» in quarantena a tempo indeterminato. Le «tre T» del premier Giuseppe Conte: testare (i casi probabili), tracciare (i loro contatti), trattare (i malati). È il modello di efficacia riconosciuta all’unanimità per contrastare l’epidemia, soprattutto in «Fase 2». In teoria, funziona: l’esperienza veneta insegna al mondo. Nella pratica, può avere effetti collaterali schiaccianti (e, se i tempi si dilatano, di dubbia utilità sanitaria). Ecco, calate le «tre T» a Milano, su una famiglia di cittadini responsabili, e li troverete così: blindati in casa, in disillusa attesa di una «liberazione» senza certezza.
La lastra privata
La vicenda umana che il signor Paolo M. racconta al Corriere va ascoltata dall’inizio: perché è una storia familiare che rappresenta i destini generali, e tiene insieme (quasi) tutti gli aspetti della storia del Covid in Lombardia. «A metà marzo mi ammalo di coronavirus. Contatto il medico di base. Mi prescrive Tachipirina. Rimango sostanzialmente abbandonato per i successivi quattordici giorni: febbre che sfiora i 41, mal di testa, breve perdita di gusto e olfatto. Assumo quattro Tachipirina 1000 al giorno, la febbre mi scende a 38,5/39, poi risale. Costante aumento di dolori all’intestino, allo stomaco, ai reni. Dopo due settimane, sento un dolore ai polmoni. Chiamo una società privata per una lastra a domicilio. Referto dello pneumologo: polmonite bilaterale interstiziale. Il medico di base non mi visita. Chiamo il pronto soccorso. Nonostante la lastra e le due settimane di febbre altissima, il paramedico oppone molta resistenza al mio ricovero. Insisto. Da Milano, mi portano al Policlinico di San Donato. Tentano di non farmi il tampone e rimandarmi a casa, perché saturo a 94 e quindi non sto rischiando di morire. Dopo un’altra lastra, e le mie rimostranze, mi ricoverano».
Le urla nella notte
«Resto nel reparto Covid per sei giorni, curato da ottimi medici e infermieri. Il cocktail di farmaci è efficace, ma pesante: due antibiotici molto potenti in contemporanea, due antiretrovirali per la cura dell’Hiv, l’idrossiclorochina anti-malarica, diverse punture al giorno di eparina, oltre a Tachipirina e Tavor di notte per riuscire a dormire, a causa delle urla di dolore e disperazione di altri pazienti e del rumore continuo dei respiratori e dei caschi per l’ossigeno. Dopo sei giorni, torno a casa e mi metto in quarantena. Non mi chiamano per la lastra di controllo e me la faccio di nuovo privatamente. La polmonite è risolta». Il secondo tempo della storia inizia da qui. «Al 14esimo giorno, teoricamente, dovrei fare i tamponi di controllo, che invece mi vengono fatti dopo quasi 28 giorni di quarantena.
La segnalazione
I familiari del signor M. fanno il loro (probabile) Covid a casa, con pochi o minimi sintomi. Come da indicazioni sanitarie, restano quasi un mese in totale isolamento (è anche il periodo del lockdown). E chiedono al medico di base di inserire i loro nomi nell’elenco dei «casi di contatto stretto con paziente Covid-positivo, con segnalazione all’Ats». Qui bisogna fermarsi un attimo: a questo punto, intorno al 20 aprile, dopo la malattia e una prima quarantena, i quattro sono tutti ragionevolmente guariti. Ma con quella segnalazione, entrano nella scacchiera impazzita dei percorsi affinché la guarigione (e soprattutto la terminata infettività) venga certificata. È un obbligo e un dovere civico, questo è fuori discussione: ma sarebbe ragionevole che, vivendo insieme, facessero tutti un unico percorso di screening. E che lo facessero in un tempo ragionevole. Invece, succede tutt’altro.
Isolamento a catena
«Dopo un mese dalla segnalazione, viene chiamato mio figlio. Il 18 maggio fa il test sierologico al Fatebenefratelli. Risulta, ovviamente, positivo agli anticorpi. Il 20 viene chiamato per il primo tampone. Ed entra così nuovamente in quarantena. L’Ats mi dice che per avere l’esito passeranno dieci-quattordici giorni. Quindi resterà isolato fino all’inizio di giugno. Poi dovrò portarlo a fare il secondo tampone. Vuol dire che forse resterà chiuso in casa, dove sta come tutti dal 9 marzo, ancora un mese. L’altra mia figlia, in questa logica perversa, non fa il test sierologico in contemporanea col fratello, bensì viene inserita ai primi di giugno, tre settimane dopo. In questo modo, quando le risulterà positivo il test, come sarà molto probabile, entrerà nel circuito dei tamponi, con una sfasatura di quattro settimane rispetto al fratello, facendo scattare una nuova quarantena in casa. Arriviamo poi al caso limite di mia moglie (che ha fatto una dozzina di giorni con la febbre tra marzo e aprile); segnalata in contemporanea ai due figli, non è ancora stata chiamata da Ats. Dopo due solleciti, non abbiamo alcuna notizia. Alle telefonate, riceviamo informazioni discordanti». A ieri, ancora non si sapeva quando la signora sarà sottoposta al test e ai tamponi (dagli esiti abbastanza scontati). Guarita da oltre un mese, resta anche lei in attesa di una nuova indefinita quarantena. Per accelerare, la famiglia ha cercato, senza esito, di muoversi con ambulatori privati.
La grande fuga
La testimonianza si conclude così: «Quando ho portato mio figlio a fare il test al Fatebenefratelli, mi hanno dato un’informativa che spiegava cosa sarebbe accaduto dopo l’esito. Io ne ero a conoscenza, le altre dozzine di persone in coda con me evidentemente no. Quando hanno compreso che in caso di positività sarebbero entrati nel circuito di quarantene e tamponi, «sono fuggiti per ben oltre la metà».La segnalazione corrisponde ai dati a conoscenza del Corriere e tocca un punto attualmente molto critico: la Lombardia in questa fase sta facendo i sierologici soprattutto a chi esce dalle quarantene per contatti con casi «positivi» (oltre che agli operatori sanitari). Il test però è «su invito», non obbligatorio. E molti, dato che hanno già fatto una lunga «clausura» in casa, proprio per timore dei tempi di una nuova quarantena dilatata tra eventuali positività e attesa di tampone (un isolamento che a quel punto diventa obbligatorio rispettare, con la sorveglianza dell’Ats), si rifiutano di fare l’esame. In questo modo si rischia che qualcuno, magari ancora infettivo e asintomatico, ricominci a diffondere il virus.