Fase 2, perché non dobbiamo affidarci al valore RT per monitorare i nuovi contagi
“Se il valore di R0 rimane una pietra miliare dell’epidemiologia per stimare il grado di contagiosità del virus all’inizio di una epidemia, l’indice Rt è poco affidabile nella fase di monitoraggio post lockdown. Il suo ruolo dovrebbe essere ridimensionato, evitando di utilizzarlo come parametro univoco e soprattutto per elaborare classifiche regionali”: così Nino Cartabellotta, presidente dela fondazione Gimbe, spiega perché non ci si dovrebbe affidare all’indice Rt per il monitoraggio della Fase 2 dell’emergenza coronavirus.
by Annalisa GirardiTra i 21 indicatori indicati dal ministero della Salute per il monitoraggio della Fase 2 spicca l'indice Rt (erre con t). Dalla riapertura, le Regioni ogni settimana comunicano il numero di tamponi eseguiti, la capacità delle strutture ospedaliere e, appunto, l'indice Rt: tenendo conto di questi dati e dell'evoluzione dell'epidemia di coronavirus sul territorio si calcola il livello di rischio per una determinata zona. Un elemento che, ovviamente, influenza le politiche e le misure da attuare per contrastare l'infezione. La fondazione Gimbe, che si occupa di ricerca in ambito sanitario, sottolinea però i limiti dell'indice Rt, un parametro definito impreciso e condizionato dalla qualità dei dati. E che non dovrebbe quindi condizionare decisioni in merito alla riapertura.
"I valori di Rt sono diventati oggetto di dibattito pubblico con inopportune classifiche tra le Regioni che, in relazione alle variazioni settimanali, lo trasformano da vessillo da sbandierare a pomo della discordia, e viceversa. Addirittura, si è arrivati a ventilare l’ipotesi, subito archiviata dal Presidente dell’ISS, di utilizzare il valore di Rt per la mobilità interregionale", commenta Nino Cartabellotta, presidente della fondazione. Ma le Regioni, afferma Gimbe, hanno chiesto di non considerare il parametro Rt nell'esaminare la diffusione del virus: i governatori, piuttosto, propongono di affidarsi all'indice R0 (erre con zero). Ma che differenza c'è tra i due?
Che differenza c'è tra Rt e R0
Quando si parla di R0 si indica il cosiddetto numero di riproduzione di base: in altre parole il tasso di contagiosità, il numero medio di infezioni secondarie causate da un unico soggetto infetto. Con indice R0 pari a 1 un contagiato potrà infettare un'altra persona, mentre se questo è uguale a 2 un malato potrà passare il virus ad altre due persone. Tanto più è alto il valore R0, tanto più il virus risulta contagioso. Questo vale per una popolazione che non ha avuto contatti precedenti con il patogeno in questione. L'indice Rt, invece, si riferisce al tasso di contagiosità in seguito all'introduzione di misure (come il lockdown) che hanno lo scopo di contrastare il diffondersi della malattia.
"Se la richiesta delle Regioni di abbandonare l’utilizzo dell’indice Rt ha un senso risulta assolutamente incomprensibile quella di sostituirlo con il valore di R0, visto che si tratta dello stesso indice in fasi diverse dell’epidemia, a dimostrazione che sul monitoraggio del contagio la confusione regna ancora sovrana", aggiunge Cartabellotta, sottolineando come il parametro R0 servisse per indicare la contagiosità del coronavirus all'inizio dell'epidemia, in assenza quindi di immunità, mentre con Rt si fa fa riferimento a una misura dinamica. Che risulta proporzionale sia all'aumento dei soggetti immuni e dei casi chiusi (persone che hanno contratto il virus e sono poi guarite o decedute) sia ai provvedimenti contenitivi. "Il valore di Rt inserito tra gli indicatori del ministero della Salute per il monitoraggio della Fase 2, di fatto è stato trasformato in un numero magico su cui fare classifiche, previsioni e addirittura prendere decisioni politiche regionali senza considerarne i limiti intrinseci e le criticità che ne influenzano il calcolo nel nostro contesto nazionale, dove continua a mancare un’adeguata base di dati", spiega il dottor Cartabellotta.
Il valore Rt è inaffidabile per monitorare la Fase 2
Il ruolo del valore Rt nel monitoraggio della Fase 2 andrebbe quindi ridimensionato, in quanto il suo valore risulta variabile sulla base di vari elementi. In primis la qualità del modello matematico con il quale viene calcolato e dei dati su cui vengono basati tali operazioni. Ma anche perché si misura a seconda della data di insorgenza dei sintomi (o quella dell'accertamento virologico) che però abbiamo più volte visto essere notificata con diversi giorni di ritardo. Ci sono stati inoltre problemi di comunicazione per quanto riguarda i casi chiusi, vista la sottostima dei decessi e la sovrastima dei guariti di cui anche la fondazione Gimbe si è più volte occupata. Anche il bollettino dell'Istituto superiore di sanità dello scorso 20 maggio sottolinea delle criticità. Come il fatto che l'indice Rt possa essere stimato correttamente solo con 15 giorni di ritardo, o che la stima possa essere comunque poco accurata in base a delle modifiche sui criteri di esecuzione dei tamponi.
I valori Rt, inoltre, sono calcolati facendo riferimento solo al 30% dei casi riportati dalla Protezione Civile. "Le nostre valutazioni indipendenti confermano che il dibattito politico e scientifico si sta concentrando su un indice molto variabile, condizionato dalla qualità dei dati, non tempestivo (l’ultima stima riflette ancora la fase di lockdown), calcolato su meno di un terzo dei casi confermati dalla Protezione Civile e influenzato dalle notevoli differenze regionali nell’esecuzione di tamponi diagnostici", aggiunge Cartabellotta. Che infine conclude evidenziando come, se il valore R0 rimanga una "pietra miliare dell’epidemiologia per stimare il grado di contagiosità del virus all’inizio di una epidemia", quello Rt si dimostra invece poco affidabile per monitorare la seconda fase della pandemia. "Il suo ruolo dovrebbe essere ridimensionato, evitando di utilizzarlo come parametro univoco e soprattutto per elaborare classifiche regionali", chiude il presidente della fondazione Gimbe.