Un tablet per amico. Pediatri e psicologi preoccupati per l'impatto sui bambini

Il lockdown da Covid aggrava il legame fra minori e tecnologie. Il pediatra Alberto Villani: "Non più di un'ora davanti allo schermo, i genitori limitino l'uso perché i bambini imitano". Lo psichiatra Paolo Crepet: "Temo che stiamo crescendo adulti depotenziati"

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Thanasis Zovoilis via Getty Images
Small boy using a digital tablet

Sono rimasti per settimane segregati in casa. Senza scuola, senza amici, spesso con la ‘compagnia’ di un video, una chat o un videogame, che in molti casi si è trasformata in una scialuppa di salvataggio. Bambini, ragazzi, poi catapultati nella fase due, disabituati alla socialità, ma comunque senza scuola e con i centri ludico-ricreativi ancora chiusi. Si ipotizza di riaprirli già dal 3 giugno – e non dal 15 come fissato dal dpcm – ma del ritorno a scuola non se ne parla prima di settembre, con delle modalità ancora in fase di studio. Nel frattempo i nonni sono fuori gioco, perché appartengono alla fascia a rischio contagio, e i genitori devono barcamenarsi tra lavoro e famiglia. La “soluzione”, come dicevamo, è spesso affidata ai device digitali, come tablet e smartphone, che già da qualche anno attirano bambini addirittura prima dei dodici mesi di età, prima di aver raggiunto livelli accettabili di coordinazione oculo-manuale. La calamita è lo schermo tattile, che genera una sorta di corporeità nell’interazione con la tecnologia, tanto da far parlare di “generazione touch”.

Vitale la diade genitori-figli

HuffPost ha sottoposto il tema ad Alberto Villani, presidente della Società italiana di pediatria, chiamato dalla ministra Lucia Azzolina a far parte del Comitato di esperti del Miur con il compito di formulare idee per la scuola alla luce dell’emergenza sanitaria, ma anche per guardare al miglioramento del sistema di Istruzione nazionale. Posto che il modello della didattica mista con alternanza scuola-lezioni a distanza sembra per il momento accantonato dal Governo, resta, come dicevamo, il tema dell’utilizzo massiccio dei device. “Noi come Sip abbiamo prodotto una serie di documenti pre-Covid, in cui davamo delle indicazioni sull’uso di questi strumenti”, ha spiegato. “Ora però va revisionata alla luce dell’emergenza, dividendo quelli che servono per motivi didattici e per la crescita formativa e culturale del bambino e dell’adolescente, da quelli puramente ludici e ricreativi”. La regola base è di “non stare più di un’ora davanti allo schermo per giocare”, se invece parliamo di uno strumento didattico, “va assicurata la salute della vista, la sicurezza completa per un utilizzo più lungo, sempre con la garanzia della finalità dell’utilizzo”. Parlando in particolare dei bambini più piccoli, centrale è il ruolo dei genitori, che in questa fase “devono organizzare la giornata dei loro figli in modo che il tempo passato con i device sia limitato e non lasciarli a loro stessi”. Un richiamo forte alla responsabilità genitoriale, che troppo spesso vede le scuole come luoghi in cui parcheggiare, letteralmente, la prole. Tema fattosi macroscopico con gli effetti della pandemia. “Anche se il bambino sta a casa, non esiste solo la possibilità dell’uso del computer, ma ci sono molte attività, quali il disegno, l’ascolto della musica, il poter fare i giochi tradizionali delle generazioni precedenti”. Stare a casa, dunque, non deve significare per forza “alzarsi tardi, non avere più regole, andare a letto tardi, perché ciò è sbagliato e nocivo a prescindere dalle tecnologie”.

Le regole dei pediatri per i dispositivi mobili

Il documento diffuso dalla Sip elenca gli effetti negativi di un’esposizione precoce e prolungata alla tecnologia digitale sui bambini in età prescolare. Tra questi i più avvertiti sono le interferenze sullo sviluppo neurocognitivo, sull’apprendimento, sul benessere, sulla vista e l’ascolto, sulle funzioni metaboliche e cardiologiche. Alcuni studi riportati nel paper hanno dimostrato che l’utilizzo dei dispositivi mobili dei genitori influenza la sicurezza dei bambini, il loro equilibrio emotivo e le interazioni familiari. In effetti, se ci pensate, i dispositivi distraggono dalle interazioni faccia a faccia tra i genitori e i figli, avendo un grande impatto persino sullo sviluppo linguistico. Non è raro usarli per placare o distrarre i bambini o come mezzo per gestire il loro comportamento: mamme e papà spesso forniscono ai bambini dispositivi durante le faccende domestiche, per mantenerli calmi in luoghi pubblici, durante i pasti, o prima di farli dormire. In Italia sono pochissimi i dati disponibili sull’uso dei media nei bambini, ma un sondaggio (riportato nel documento Sip e apparso su La Repubblica il 5 gennaio 2017 dal titolo ‘Bambini, già̀ a un anno con il cellulare’) ha descritto che il 20% ha usato uno smartphone per la prima volta durante il suo primo anno di vita. L’80% dei bambini dai 3 ai 5 anni è in grado di utilizzare lo smartphone dei propri genitori e i genitori spesso usano i media come se fosse un ciuccio, offrendo dispositivi mobili ai propri figli per mantenerli calmi durante il primo (30%) e il secondo (70%) anno di vita. La conclusione del documento ricalca le linee guida dall’American academy of pediatrics e quelle australiane che sconsigliano l’uso di dispositivi multimediali nei bambini di età inferiore a 2 anni, durante i pasti, l’ora precedente al momento di andare a letto, la visione di programmi frenetici o a contenuto violento e l’uso come “ciuccio”, per mantenere i bambini in silenzio in pubblico. Quanto al limite di l’esposizione, massimo un’ora al giorno nei bambini di età compresa tra 2 e 5 anni e meno di due ore al giorno nei bambini di età compresa tra 5 e 8 anni. Le famiglie, infine, dovrebbero monitorare i contenuti multimediali e le app utilizzate o scaricate, e ricordare che “i bambini sono grandi imitatori”, quindi anche loro stessi devono limitare l’uso dei media: si otterrà una maggiore connessione proattiva con i bambini “interagendo, abbracciando e giocando con loro”. 

Gruppi di lavoro e incontri interministeriali per i bambini

La scorsa settimana, nelle stesse ore in cui ammoniva il governo (e quindi in parte se stessa) per aver fatto poco per i bambini, la ministra Elena Bonetti ha dato avvio al gruppo di lavoro che dovrà predisporre le linee guida per la fascia di età da zero a 3 anni. Il gruppo di 20 persone ha il compito “di elaborare azioni, strategie e politiche a favore della tutela e della promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nel quadro del contrasto alle conseguenze dell’emergenza epidemiologica, sia nel corso dell’attuale periodo emergenziale sia nelle fasi successive, al fine di contrastare l’insorgere di ogni forma di disagio, isolamento, discriminazione o ineguaglianza a danno delle persone di minore età”, con la prossima riunione fissata per venerdì 29 maggio. Bonetti ha incontrato la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, la sottosegretaria all’Istruzione Anna Ascani, la sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa, il presidente della Sip Alberto Villani, i rappresentanti di Anci, Upi e Regioni per lavorare a una proposta che integri nel protocollo sanitario la stessa fascia 0-3 anni. “I diritti dei più piccoli sono centrali e non possono essere ancora sacrificati”, ha detto Ascani. “Dobbiamo rispettare il diritto al gioco e all’educazione e sostenere le famiglie che hanno bisogno di un concreto supporto in questa fase di ripartenza”.

La nota stonata del Mise

Una cornice che sembra andare verso la centralità della figura del bambino nell’azione di governo, se non fosse per un piccolo dettaglio che sta generando qualche perplessità tra gli psichiatri. Ci rifermiamo all’istituzione di un fondo per sostenere la produzione di prototipi di videogiochi in Italia, contenuto nel Dl Rilancio e voluto dal Ministero dello Sviluppo economico. Un finanziamento a fondo perduto di quattro milioni di euro che rappresenterebbe un primo passo nella direzione di un sostegno a un settore costituito da piccole e micro imprese scarsamente capitalizzate, ma che operano in un mercato internazionale molto competitivo. Basta guardare i risultati stellari registrati in borsa dei colossi del game industry, come Activision Blizzard e Netease, da inizio pandemia e lockdown per capire il valore dell’opportunità imprenditoriale. Fortnite, il videogioco più famoso al mondo, arriva a incassare oltre tremila euro al minuto grazie a milioni di giocatori che ogni giorno si danno battaglia virtuale per la sopravvivenza. Si capisce la golosità del business, un po’ meno l’urgenza di inserire una norma del genere – anche se la cifra stanziata non è grossa – non per il ‘rilancio’ di un settore in crisi, ma per un ‘lancio’ di qualcosa che in Italia è ancora agli albori. Se non fosse almeno per una questione di opportunità o anche solo simbolica rispetto alla gerarchia delle priorità, con i bambini in cima alla piramide (o almeno così dovrebbe essere). Peraltro il gioco citato, Fortnite, è al centro di un fatto di cronaca dei giorni scorso assai controverso: un bambino di otto anni è caduto dalla finestra e gli inquirenti hanno scoperto che in camera aveva il gioco aperto nel suo tablet. Forse sono coincidenze, non si possono stabilire connessioni per il momento, ma la procura di Arezzo sta indagando. Come fa notare lo psichiatra Paolo Crepet, raggiunto da HuffPost, “sembra che il Governo con questa scelta si sia dimenticato dei danni sensoriali che l’uso di videogiochi provoca”, siccome è quasi sempre un uso prolungato. Lo Stato “non può essere né pedofobico, né avere in odio i bambini, né diventare fabbrica di patologie psichiatriche: io ne ho alcuni in cura per problemi legati all’uso pervasivo delle tecnologie”. Lui si dice “inorridito per tanta insipienza” e teme che i più piccoli “possano rimbecillire, essere lenti a livello cognitivo e diventare degli adulti depotenziati, che poi presenteranno il conto morale ai genitori”. Nostre fonti al Mise fanno spallucce e minimizzano, parlando di “necessità di innovare il Paese e entrare in un mercato in cui altri Stati europei sono già più avanti di noi”.