Decreto Rilancio, per le imprese tanto debito e poco capitale
Il provvedimento delude chi sperava in misure a favore della capitalizzazione delle imprese come adeguata alternativa a un indebitamento incrementale.
by La VoceIl provvedimento delude chi sperava in misure a favore della capitalizzazione delle imprese come adeguata alternativa a un indebitamento incrementale. Aumentano così i rischi sistemici e si comprimono le prospettive dell’economia più sana.
Due decreti per le imprese
Il punto debole nelle misure di sostegno alle imprese – specie le Pmi – non sta tanto nell’ammontare dell’intervento previsto, quanto nei modi e tempi con cui le provvidenze “atterrano”. Il decreto “Liquidità” (Dl 23/2020) e il decreto “Rilancio” con benefici alla capitalizzazione (Dl 34/2020) si caratterizzano, nell’un caso, per un incremento dell’indebitamento con conseguente indebolimento della struttura imprenditoriale; nell’altro per una eccessiva inconsistenza, e forse anche intempestività, dell’intervento.
Della provvista a condizioni agevolate (garanzia statale al 90 per cento) per imprese fino a 1,5 miliardi di fatturato si sono già visti pregi e difetti. Il denaro è arrivato col contagocce in questi giorni. Ma sta per intervenire – in sede di conversione del Dl 23 – un emendamento facilitatore, basato sull’autocertificazione, che dovrebbe (condizionale d’obbligo) snellire le istruttorie bancarie, accelerando i tempi di erogazione.
Bene: ma sempre debito è. Ci si aspettava un intervento sul lato fiscale che facilitasse anche (e addirittura di più) la capitalizzazione delle imprese in alternativa all’incremento dell’indebitamento.
Il Dl 34 lo contiene, ma modi, tempi e misura paiono del tutto inadeguati.
Nuovo capitale e credito d’imposta
I benefici previsti consistono in un credito d’imposta parametrato al nuovo capitale apportato da versare entro il 2020. Non basta, quindi, un aumento contabile del patrimonio netto: occorre che vi sia il versamento di nuova liquidità. A ben vedere, è l’unica misura condivisibile. Seguono una serie di limitazioni, alcune delle quali peraltro necessarie (come il divieto di distribuzione di dividendi per un certo periodo); altre davvero mal concepite.
I benefici spettano solo alle imprese i cui ricavi di marzo-aprile 2020 sono risultati inferiori di oltre il 33 per cento rispetto a quelli dello stesso periodo 2019. Scegliere il fatturato di un periodo in corso d’anno per misurare l’andamento di imprese che redigono il bilancio in base al principio di competenza porta, però, facilmente fuori strada. Intanto perché fatturato e incassato spesso non coincidono. Col risultato che chi ha fatturato regolarmente ad aprile può soffrire a maggio e giugno crisi di liquidità per mancati incassi proprio di detto fatturato. E poi perché un conto è misurare i ricavi per competenza alla fine dell’anno, altro è ipotizzare l’esistenza di una competenza mensile o addirittura bimestrale. Il fatturato del periodo, cioè, può essere stato influenzato da scelte gestionali tutt’altro che rivelatrici di situazioni di benessere o di crisi. Insomma, il parametro prescelto pare un po’ troppo influenzato dal caso.
Alle imprese nelle dette condizioni si offre, poi, un accompagnamento di capitale pubblico: quello del Fondo patrimonio Pmi. Ma, contrariamente a quanto emergeva dalla pluralità di bozze circolate in precedenza, che ipotizzavano un apporto di capitale di rischio, la versione finale del decreto configura l’intervento come sottoscrizione con denaro pubblico di “obbligazioni o titoli di debito”, emessi per di più a titolo oneroso. E ciò nell’intesa che l’intervento pubblico è reso possibile solo dall’apporto contestuale di capitale di rischio privato. Si ipotizza anche una riduzione dell’importo da rimborsare al verificarsi di certe (non definite) condizioni. Ma sempre debito resta.
Anche la tempistica di attribuzione dei benefici lascia a desiderare. Il credito d’imposta garantito è spendibile – da parte di colui, persona fisica o giuridica, che apporta il capitale – in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi 2020: quindi, nella migliore delle ipotesi, a giugno del 2021. Può essere utilizzato anche per compensare altri debiti tributari, ma solo dopo aver presentato la dichiarazione del 2020: quindi a settembre 2021. Insomma, vi è un’ingiustificata divaricazione fra i tempi di apporto di liquidità all’impresa rispetto al godimento dei benefici per l’investitore.
La misura, infine. Innanzitutto, il beneficio – che non può superare 800 mila euro – è riservato a imprese con fatturato compreso fra 5 e 50 milioni di euro. Sono il cuore delle Pmi italiane: ma come non vederne l’intrinseca debolezza? Come non vedere che se esse restano tali e non crescono anche mediante aggregazioni avranno un futuro difficile da affrontare? Perché riservare l’esenzione da Irap 2020 a tutte le imprese – in buone e in cattive acque – con fatturato inferiore a 250 milioni e limitare le provvidenze in questione solo a queste ben più fragili piccole imprese? Qualcuno dirà che la misura del credito d’imposta è coerente con i dettami Ue in tema di aiuti di stato. È vero. Ma anche l’attribuzione del medesimo beneficio a imprese di più adeguate dimensioni lo sarebbe.
Il credito d’imposta è pari al 20 per cento del conferimento, che però non può superare i 2 milioni. Consegue che per raggiungere il tetto del beneficio (800 mila euro) occorrono almeno due investitori ovvero il concorso di perdite significative (che generano, a certe condizioni, un credito d’imposta del 50 per cento). Perché fissare, a parità di tetto, un importo così basso per il conferimento agevolato?
Insomma, chi sperava in misure a favore della capitalizzazione delle imprese come adeguata alternativa a un indebitamento incrementale è rimasto deluso. Aumentano, per questa via, i rischi sistemici e si comprimono le prospettive dell’economia più sana.
Di Tommaso Di Tanno