Dieci giorni di rinvio con la valigia pronta. La strategia di Mittal sull'ex Ilva

Lucia Morselli chiede tempo per un nuovo piano per Taranto che tenga conto dello scenario post-Covid. Il Governo accetta, i sindacati protestano. Perché l'addio è ancora sul tavolo. Possibile colloquio fra Conte e gli indiani

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Ivan Romano via Getty Images

“La situazione com’è? Noi ci aspettiamo una conferma degli impegni condivisi, lo Stato è pronto a coinvestire”. La domanda delle domande, quella che punta a capire quali sono le reali intenzioni della controparte, Roberto Gualtieri la rivolge a Lucia Morselli, il volto italiano di Mittal, quando è passato poco più di un quarto d’ora dall’inizio della riunione in videconferenza sul futuro dell’ex Ilva di Taranto. È quasi mezzogiorno. Fuori, in tutti gli stabilimenti controllati dal colosso franco-indiano dell’acciaio, gli operai scioperano. La manager risponde così: “Vogliamo onorare gli impegni presi, presenteremo un piano industriale entro dieci giorni, ma gli scenari cambiano ogni 24 ore alla luce dei danni del Covid”. Ancora Gualtieri: “I dieci giorni di tempo sono ragionevoli”. I sindacati sbottano: il tempo è scaduto. Eccolo, in tre immagini, il gioco delle parti che non risolve, che rimanda, che lascia un punto interrogativo sul destino di undicimila lavoratori. 

“I clienti non vogliono i nostri prodotti, alcuni fornitori sono spariti per sempre”. La fragilità della promessa di Mittal di restare a Taranto

Morselli, dunque, dice che Mittal vuole tenere fede all’accordo raggiunto con il Governo il 4 marzo, quello che traccia una road map con alcuni punti chiari, come il corso green e l’ingresso dello Stato, ma che tiene in pancia anche tante questioni irrisolte, a iniziare da quella degli esuberi. Il primo dato che emerge dalla riunione, però, è che non c’è ancora un piano industriale. Viene annunciato come imminente, cioè tra dieci giorni, ma sono le stesse parole della manager a mettere in evidenza la fragilità di questo impegno. La colpa, qui, è del Covid. Perché cosa sta succedendo all’ex Ilva lo racconta sempre Morselli. Così: “Tutti i giorni i nostri clienti ci mandano mail chiedendoci di ritardare di mesi le spedizioni perché non sanno cosa farsene. Non laminiamo perché non vogliono i nostri prodotti, in questo momento spedire per noi è impossibile”. La produzione è ferma a settemila tonnellate di ghisa liquida al giorno, al minimo storico. Sui 10.700 dipendenti, sparsi tra Taranto, Genova, Novi Ligure e gli stabilimenti minori, circa cinquemila sono in cassa integrazione o comunque a casa. 

L’ex Ilva ha girato al minimo durante il lockdown e la lenta ripresa alla normalità, iniziata il 4 maggio, si è subito trovata davanti il conto del Covid. Ecco un altro tratto della fragilità dell’impegno dichiarato: “Dobbiamo ripianificare le produzioni perché alcune ditte sono sparite per sempre. Dobbiamo ripensare gli appalti e i fornitori perché alcuni interlocutori non ci saranno più”. Quindi un piano industriale. Cioè un elenco di tutto quello che si può fare all’ex Ilva dopo il Covid. Le strade sono due. La prima: restare a Taranto, ma a fronte di un impegno ridotto. E qui subentrano gli esuberi. La seconda: tradurre lo stato comatoso, indotto dalla crisi del mercato dell’acciaio e elevato a catastrofe dalla pandemia, in un bye bye Italia. 

La doppia via: esuberi o lasciare Taranto

Aver preso dieci giorni di tempo tiene in pista entrambe le soluzioni. Perché nel frattempo balla una telefonata tra Giuseppe Conte e Lakshmi Mittal, il numero uno del colosso. Se ci sarà (è attesa oggi, ma potrebbe slittare nei prossimi giorni), fonti industriali vicine al dossier spiegano che sarà per concordare il valore della penale per lasciare Taranto. L’accordo del 4 marzo prevede che Mittal può lasciare lo stabilimento entro fine anno, pagando 500 milioni, se non si arriva a firmare il nuovo contratto di investimento entro il 30 novembre. Il Governo, nel caso, punterebbe a incassare un miliardo. L’altra strada, come si diceva, è quella di restare a Taranto, ma facendo ricorso agli esuberi. D’altronde proprio l’intesa di marzo, funzionale ad evitare lo scontro in tribunale non più rinviabile, lasciava aperta propria questa questione. Dice, lo stesso accordo, che il perimetro occupazionale, da Mittal assicurato in 10.700 dipendenti ma fino al 2025, doveva passare per un altro accordo, con i sindacati. Da siglare entro il 31 maggio. Cioè tra sei giorni. Impresa ardua, di fatto impossibile, se si considera che cinque mesi di trattative non sono bastati per arrivare a tirare una linea. 

La partita dei sindacati. Né con il Governo, né con Mittal

“Tempo scaduto”, dice la Fiom. Anche la più aperturista Fim-Cisl, guidata da Marco Bentivogli, si ritiene molto insoddisfatta. Ecco cosa dice il suo segretario generale: “A oggi abbiamo la sensazione che non ci sia solidità nel gruppo, né voglia di portare a termine gli impegni presi”. Rocco Palombella, il numero uno della Uil, completa il quadro. Così ha parlato durante la riunione: “Il problema vero di Ilva è la prospettiva. Se il vostro piano è quello dei sogni o di impegni irrealizzabili con assetti societari misti e futuribili siamo di fronte al disastro occupazionale, economico e ambientale”. 

I sindacati non stanno con Mittal. Rimproverano all’azienda di aver rimandato la soluzione ancora una volta. Poche parole chiare, a iniziare dall’intento di base, cioè se e come restare a Taranto. Annusano l’addio, ma prima ancora la possibilità che ci siano migliaia di esuberi. A molti non è sfuggito che Mittal ha sempre parlato di cinquemila esuberi e che oggi, tra cassintegrati e lavoratori comunque non a lavoro, gli esclusi sono circa cinquemila. Lo sviluppo di questo ragionamento è il rischio che la cassa integrazione per Covid si trasformi in esuberi. Ma i sindacati non giocano neppure nel campo del Governo. Il dente è ancora avvelenato per i lunghi mesi della trattativa che hanno portato all’accordo di marzo. I sindacati furono tenuti fuori. E quel termine del 31 maggio per chiudere la partita degli esuberi è arrivato. La scollatura rispetto all’esecutivo è tutto nella richiesta, ribadita alla riunione: bisogna ritornare all’accordo siglato tra le parti nel settembre del 2018. In quell’accordo era prevista una tutela futura per i circa 1.700 lavoratori appartenenti all’amministrazione straordinaria. Nell’accordo di marzo non compaiono: si parla solo di 10.700 lavoratori. Per il Governo tenere Mittal su quell’impegno sarebbe un miracolo perché i franco-indiani pensano a un dimezzamento. I sindacati sono ancora più distanti, in senso opposto. 

L’insoddisfazione dei lavoratori. A Genova prosegue il blocco delle merci

È stato il giorno della riunione in videoconferenza, la prima dopo quasi tre mesi, ma è stato anche il giorno della grande protesta. Sciopero in tutti gli stabilimenti del gruppo. A Taranto dalle 11 alle 15 e dalle 19 alle 23. A Genova il blocco delle merci in entrata e in uscita. Fatta la riunione, la protesta decide di andare avanti. Poche risposte, se risposta si può definire la promessa di un impegno di cui non si è convinti fino in fondo.