Ritorno in Italia

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Julia_Sudnitskaya via Getty Images
Travel suitcase and medical mask. The ban on travel during the epidemic of coronavirus and quarantine against corona virus or covid-19 concept.

“Io, viaggiatore in una stanza: ora la frontiera è la porta di casa”, scrive Paolo Rumiz in un articolo del 14 marzo. Anche io, seppur con un millesimo dei chilometri del giornalista e scrittore, mi sento nella stessa condizione. Il mio unico viaggio degli ultimi mesi è stato surreale: mascherina, cappuccio della felpa sulla testa, aeroporto di Londra Heathrow, moduli da compilare e consegnare a Fiumicino, auto noleggiata per percorrere di notte un’autostrada deserta fino al confine meridionale della penisola, un saluto a chi (finalmente) mi sorride dolcemente, e, infine, una sosta per “toccare” il Tirreno prima di chiudermi in un appartamento e passare una (ennesima?) quarantena solitaria.     

L’ultima volta che avevo sentito la necessità di immergere una mano in acqua era stato a Venice Beach per “sentire” il Pacifico. Ora è diverso però. Nonostante Londra sia (anche) casa mia, dal balcone su cui passo parte della mia giornata, ascolto un dialetto che non ho quasi mai parlato eppure che sento mio.

Qualcuno mi saluta, altri si fermano a chiacchierare, qualcun altro mi scambia probabilmente per mio fratello, un’amica prenota dal parrucchiere per il mio compagno di banco delle superiori, una vicina dice alla figlia che parlo inglese e racconta che la sorella ha avuto un bambino, un altro spera che quando finirà la quarantena potremo parlare di storia e aggiunge che se ho bisogno di qualcosa lui abita nel palazzo a fianco.

Anche se resto, appunto, nei confini di un’abitazione ho una sorta di vita sociale e il flusso dei pensieri migliora e non si ferma: “da quando la mia libertà di movimento è finita per via della peste, pensieri nuovi escono a torrenti. Pensieri da fermo. Così tanti che devo fissarli in un quaderno”, continua Rumiz. In particolare, visto che non riesco a fare quasi null’altro, posso ragionare su alcune questioni. Perché ritornare in Italia? Sebbene il mito dei tamponi a tappeto per chi rientrava in Calabria sia rimasto una chimera in attesa di un’estate che farà apparentemente aumentare la temperatura corporea, mi sento più sicuro in questo luogo che non altrove. È un paradosso considerando anche lo stato della sanità calabrese.

Ho la fortuna di essere tornato con la fase 2 e la ripresa di una parvenza di vita commerciale. Eppure, noto la ferita, profonda, che questo periodo ha lasciato tra la gente. Sono partito da un luogo, la Gran Bretagna, dove, invece, il principale consigliere politico di Boris Johnson girava per il paese sebbene avesse il coronavirus e dove il lockdown è stato vissuto come un momento di festa: non si lavora, quindi si affollano i parchi, si cucina postando foto e si fanno competizioni tra colleghi su fenomenali animali domestici (a volte con descrizione del carattere del gatto o del cagnolino).                   ​                              ​              

Questa idea di comunità è un artefatto. Esiste un senso di solidarietà che si è mostrato molto più labile di quello italiano. Il sentire “comune”, a parte casi singoli o il sempre molto attivo volontariato, ha un’accezione abbastanza individualista. La dimostrazione è che il rispetto delle regole, in assenza di vera coercizione, è stato blando.

Questo ha generato in molti una diffusa insicurezza. Nonostante i proclami di Westminster sui successi di un modello che avrebbero copiato all’estero, e che sembrano presi dal manuale di demagogia del presidente della regione Lombardia, è lo stato ad aver fallito. Questa è la prima differenza con l’Italia dove vari problemi sono stati causati dall’inefficienza di alcune regioni. A Londra, come altrove, ha prevalso una logica capitalista che, unita all’ideologia di una certa destra, ha considerato economia e mercato i capisaldi della società e ben al di sopra della salute pubblica.                     ​  

Ha perfettamente ragione Luiza Bialasiewicz (Università di Amsterdam) a ricordarmi come questa marea, molto anglosassone e social, di foto di ortaggi cresciuti in amorevoli giardini o il pane rigorosamente bio come lo facevano le (bis)nonne, che nell’immaginario mitizzato erano povere, è il simbolo di una concezione e visione borghese della società. Essa esclude chi ha preoccupazioni reali, non può permettersi di restare in casa, vive in un blocco metropolitano di case popolari e non possiede né il forno di ultima generazione né il giardino.                     ​        

È questa la base sulla quale vogliamo costruire la società italiana, magari facendoci ammaliare dalle sirene di chi chiede un governissimo, una svolta liberista, di aprire tutto e subito “perché così riparte l’economia”, privatizzando la sanità e disinvestendo in ricerca e istruzione, proponendo meno diritti? Potremmo finire a scambiarci le foto dei gattini mentre le corsie di terapia rifiutano gli anziani e disquisendo sulla grandezza dello spirito nazionale in un momento di difficoltà (glorioso come in tempo di guerra) e sui vantaggi dell’assicurazione sanitaria privata. Bello vero?

Nonostante tutte le sue problematicità, il tentativo di grandi gruppi di accedere al potere (forse per influenzare la destinazione degli ingenti fondi che arriveranno), le lamentele delle associazioni di categoria, il caos sulla riapertura (o meno) delle scuole, l’Europa che arranca, la gestione malsana della Lombardia, qualche migliaio di covidioti che ora affollano locali e piazze senza mascherine e distanziamento e altrettanti virologi e medici improvvisati, l’opposizione irresponsabile di chi ha fatto solo campagna elettorale e l’assalto alla diligenza di Confindustria, la penisola, almeno agli occhi di chi è all’estero, ha mostrato comunque un volto umano e una certa serietà.

Non è poco. Non sono molti quelli che hanno fatto meglio ed esistono ancora capi di stato e politici che negano la pericolosità del coronavirus o sventolano come bandiere in base alla convenienza politica.