Partecipazione popolare o architettura democratica?
by Fabrizio BottiniMi è capitato in questi giorni di leggere un interessante contributo sul tema «Storia della partecipazione» con particolare riguardo al nostro paese e alle nostre città. Che partendo dalla correttissima e indispensabile premessa secondo cui la partecipazione non deve affatto essere confusa con la rivendicazione o opposizione, ma connotarsi in senso pieno come proposta democratica, ne faceva ascendere le origini recenti a certe forme di organizzazione del lavoro, sociale e politica di base. Però una volta «sceso sul territorio» ovvero nell'ambito delle trasformazioni ed evoluzioni urbane vere e proprie, il ragionamento faceva una brusca giravolta trasformandosi in una sorta di storia dell'architettura democratica, e focalizzandosi su alcuni protagonisti del '900 (anziché poniamo su alcuni temi): il biologo sociologo e urbanista scozzese Patrick Geddes, l'imprenditore e politico Adriano Olivetti, l'architetto anarchico Giancarlo De Carlo. Tutte figure di grande spessore e interesse certamente, ma che appartengono senza alcun dubbio, come del resto può verificare chiunque aprendo un libro tra quelli comunemente adottati in qualunque corso di formazione universitario in progettazione architettonica, a uno specifico ambito della trasformazione urbana partecipata.
Stupito da quel taglio particolare scelto dall'Autore, glie ne ho chiesto direttamente conto. Perché quell'Autore non è né un architetto né uno storico dell'architettura o dell'urbanistica, ma totalmente formato dentro l'ambito della sociologia e delle scienze politiche, e colpiva davvero quella scelta. La risposta che mi è stata data mi dà ulteriori spunti di riflessione: in sostanza sarebbe la sociologia stessa, specie in Italia dove quel tipo di studi e formazione accademica hanno una storia piuttosto recente, ad essere quasi forzosamente «andata al traino» di pratiche che avevano trovato un interessante ambito di applicazione (e necessariamente anche di sedimentazione teorica) proprio nella progettazione di trasformazioni fisiche: vuoi nella gestione dei conflitti locali di opposizione a grandi progetti di forte impatto sociale economico ambientale, vuoi in quella delle virtuose spinte propositive per l'uso, modifica, riqualificazione, valorizzazione di spazi pubblici o riappropriati alla comunità. Il che purtroppo, in quanto atteggiamento e addirittura «teoria» comunemente diffusa, finisce per penalizzare alcune potenzialità della partecipazione stessa.
I cui istituti, tecniche, e teorie, certamente precedono quelli dell'architettura democratica, che in parte ne ha assorbito il senso, ma poi l'ha sviluppato (come per certi versi successo con la stessa urbanistica fino alla seconda metà del secolo scorso) secondo propri criteri che vedendo al centro di tutto il progetto architettonico di trasformazione fisica finivano per mortificarne qualità e potenzialità premiandone solo alcune. Nascono da lì quei moderni «bilanci partecipati» fatti di recinti dentro cui grandi e piccoli architetti dilettanti si rivolgono a una committenza virtuale pensando dettagliatamente spazi urbani su propri gusti e comportamenti, con l'unico vincolo e contesto di quel recinto di metodo (a volte implicito e non ben capito dallo stesso progettista cittadino) costruito discrezionalmente dall'istituzione, aggirando proprio il metodo partecipativo che dovrebbero esprimere. Oppure le assemblee, vuoi di opposizione vuoi di proposta, dove a scontrarsi non sono idee di massima, bisogni, opzioni, aspirazioni, ma veri e propri disegni tecnici, semplicemente eseguiti con più o meno perizia e capacità comunicativa dai vari partecipanti. Che così inquadrati, magari del tutto soddisfatti, nel gioco dell'architetto dilettante, si scordano di esercitare la professione per cui sono più qualificati, ovvero quella del cittadino, che esprime progetti e aspirazioni più alte in tanti ambiti oltre il colore delle panchine, delle facciate, dell'arredo e delle specie vegetali.