La sorpresa di rileggere "Vita o morte dell’Europa" di De Rougemont

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WALTER ZERLA via Getty Images

In questi giorni di cauto ottimismo e di radicati timori sull’Europa del Coronavirus – tra Mes, Sure, Bei, Recovery Fund scontando il dispotismo solito dell’asse del Nord – rileggo le pagine di un classico di Denis De Rougemont, tra i padri dell’Europa postbellica, riedito di recente dalle Edizioni di Comunità dirette da Beniamino de’ Liguori Carino. Il titolo già è fortemente emblematico: Vita o morte dell’Europa. La nostra identità sono gli altri? scritto alla fine degli anni Quaranta.

L’esordio fa pensare ai nostri tempi quando afferma che l’Europa, sente di dovere confessarlo, ha un aspetto poco allegro così che “a vederla si direbbe che ha perso la guerra”. Precisa – siamo a pochi anni dalla fine del conflitto – che, certo, militarmente, Hitler e i suoi seguaci sono stati sconfitti ma nella lotta hanno segnato sui loro avversari un’impronta che vale una vittoria. Con un nazionalismo al proprio interno che mantiene vivi diffidenze e rancori secolari.

Da una parte, infatti, il nazionalismo distrugge le diversità viventi, sotto il pretesto di unificarle – e qui scattano impressionanti assonanze con l’oggi – dall’altra, dichiara sovrana la nazione in tal modo unificata, inducendola a comportarsi di fronte all’Europa “come un volgare individuo le cui pretese di libertà non conoscono più scrupolo alcuno”. E qui De Rougemont però introduce da un lato argomenti di una contestualizzazione storica che oggi suona ampiamente superata incentrata com’è sulla Guerra Fredda: tant’è che – sostiene - le divisioni vanno anche comprese, a differenza di Unione Sovietica e Stati Uniti, per la peculiarità dell’Europa, come entità spirituale che trova, a suo dire, la massima vitalità, proprio nei contrasti. 

Secondo una formula dell’archetipo europeo come “dialettico” per eccellenza.  Ma contemporaneamente mostra che è proprio all’interno di un nazionalismo mai sopito (oggi lo chiamiamo sovranismo) che si annida, in fondo lo spirito totalitario. Perché lo spirito totalitario non è pericoloso soltanto per i trionfi che raccoglie in alcuni paesi; lo è soprattutto – attenzione è bellissimo! – “per l’agguato che tende a noi tutti, all’intimo dei nostri pensieri, al minimo vacillamento della nostra vitalità, del nostro coraggio e del senso della nostra vocazione”.

E’ contro un nemico sempre minaccioso, quel sovranismo-totalitarista (espressione mia) sempre vivo nel cuore dell’Europa che prende forma la battaglia per il federalismo: lo stesso pensiero che ispira gli altri padri dell’Europa come Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni nel celebre manifesto di Ventotetene. Dopotutto, se è stata l’Europa a secernere questo nazionalismo contagioso, tocca a lei, secondo De Rougemont, l’invenzione di un antidoto.

Quel federalismo appunto che fa riferimento ancora a una visione umanista dell’Europa di cui la storia del continente è espressione e a un concetto dell’uomo come essere doppiamente responsabile: in primo luogo di fronte alla sua personale e unica vocazione, e in secondo luogo di fronte alla comunità in mezzo alla quale questa sua vocazione si attua.

L’uomo è dunque libero e impegnato, autonomo e solidale insieme. Vive nella tensione fra questi due poli: il particolare e il generale; fra queste due responsabilità: la sua vocazione e la società; fra questi due indissolubili amori: quello che deve a se stesso e quello che deve al suo prossimo. E’ proprio all’uomo finalmente considerato come persona, libero e impegnato a un tempo, e vivente nella tensione fra autonomia e solidarietà, che corrisponde il regime federalista. Nella ricerca incessante “di un equilibrio elastico e costantemente mobile” nell’ambito di gruppi votati spesso a sottomettersi l’uno all’altro o annientarsi.

Non dimentichiamo – ci ricorda –  che “federare” significa molto semplicemente “disporre insieme”, combinare come meglio si può queste realtà concrete ed eteroclite che sono le nazioni, le regioni economiche, le tradizioni politiche. Anche se la federazione stessa non ha per scopo eliminare le differenze e fondere tutte le nazioni in un blocco unico, ma, al contrario, salvaguardare le qualità specifiche di ognuna. E riprendendo il carattere dell’uomo dialettico di cui è espressione la storia europea, in contrasto col semplicismo brutale che caratterizza lo spirito totalitario, il federalismo si basa sull’amore per la complessità.

Ecco allora concludere che la politica federalista, a dire il vero, non è altro che la politica pura, la politica per eccellenza, mentre i metodi totalitari sono per definizione antipolitici, giacché consistono semplicemente nel sopprimere le diversità, stante la loro incapacità di comporle in un tutto organico e vivente.

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Edizioni Comunità