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In cima all’Everest senza vedere

Lo statunitense Erik Weihenmayer, detto anche l'Uomo Ragno, è stato il primo non vedente a raggiungere la vetta dell'Everest, il 25 maggio 2001

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A 8848 metri sul livello del mare, dice chi ci è arrivato, il panorama è l’ultimo dei pensieri. Al confine tra Cina e Nepal, un’esperienza notevole. Nessuna città, molte nuvole, molto bianco, molto azzurro. La stanchezza derivata dalla scalata amplifica ogni sensazione. C’è l’adrenalina che concorre. L’aria ha qualcosa di speciale, lassù. Il respiro si fa profondo, misticamente parlando. Molta poesia, pur considerando che recentemente l’Everest è stato frequentato più di Rimini: più in basso, per via del traffico di scalatori desiderosi di vivere l’esperienza, il livello di rifiuti raggiunto ha infatti superato ogni limite di decenza.

Nel 2001 tutti questi problemi erano meno sentiti, e anche il livello tecnologico dei materiali non era sentito come così accessibile. Non c’era la ‘moda’ del tetto del mondo, e le spedizioni erano più rare. Una, in particolare, fu piuttosto unica nel suo genere. A portarla avanti un uomo di Princeton, New Jersey: Erik Weihenmayer. A 15 mesi di vita gli fu diagnosticata una retinoschisi. Si tratta di una malattia della macula che peggiora durante l’adolescenza e che può portare alla cecità. Erik la raggiunse all’età di 16 anni, e la situazione limite, che comunque prevedeva, fu contraddistinta dall’adozione del suo primo cane guida. Era a metà anni ottanta quando si innamorò delle arrampicate e delle scalate. Nonostante l’handicap alla vista, per lui era naturale sentire le rocce, era una cosa facile mantenere il controllo e sentire al tatto le superfici ideali ove trovare l’appoggio corretto. Si fece strada, nella sua mente, un obiettivo enorme: scalare le più alte vette del mondo, non per soddisfare un desiderio visivo a cui non poteva accedere, ma per dimostrare al mondo che gli ostacoli non sono mai insormontabili, nemmeno se ci si mette di mezzo la genetica.

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Ovviamente non fu sufficiente arrivare in Nepal e prendere la strada per l’Everest: un cieco non può arrivare dove vuole senza l’aiuto di una guida affidabile. Così, trovati i compagni giusti, e affidandosi alle sensazioni tattili di un animo avventuroso, prese il sentiero della grande impresa. Una persona normalmente dotata di vista può solo immaginare il grande sforzo di concentrazione, il grande focus necessario per scalare una montagna così alta e complicata senza poter osservare e anticipare pericoli e imprevisti. Si tratta, a quel punto, di una questione di olfatto, di respirazione, di ascolto, di ragionamento. Quella di Erik è un’impresa di enorme intelligenza: di calcolo controllato. Un sogno dai confini precisi. Si dice che le leggende abbiano un cuore, ma questa è più di cervello. Un cieco deve per forza dotarsi di arguzia per fare una scalata così. Il 25 maggio 2001 Weihenmayer, cognome di affidabilità tedesca, arrivò alla vetta. Una questione di olfatto, di ascolto. La montagna respira, un respiro placido. C’è il vento. Il freddo che gela i muscoli. La vista non serve più, o non è mai davvero servita per amare quel luogo.

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Sensazioni indescrivibili per un vedente, in primis. E pure per la maggioranza dell’umanità, visto che Erik diventò nel 2002 uno degli allora pochi uomini ad aver raggiunto le sette vette più alte del mondo, in ogni continente: monte Denali, Aconcagua, Monte Elbrus, Monte Kosciuszko, Monte Vinson in Antartide, il Kilimangiaro – oltre all’Everest. Si possono leggere le sue aspirazioni nel libro ‘In vetta a occhi chiusi. Autobiografia di un alpinista cieco’: tra le righe traspare un amore notevole per la montagna e per il prossimo. «Mi piacciono le sensazioni spirituali che ti danno le montagne. I suoni, la vastità degli spazi aperti. C’è una domanda che non sopporto: perché fai l’alpinista se poi non puoi vedere il panorama una volta in cima? Io rispondo che nessuno scala le montagne per la vista. Nessuno soffre come un cane per vedere il panorama. La vera bellezza di conquistare la vetta di una montagna è quando sei appeso in cordata, quando le stai sul fianco. Di certo non in cima. Spesso l’ignoranza della gente fa più male del nostro stesso handicap. In fondo sono solo un cieco che scala le montagne. Sembrano parole che non vanno molto bene assieme, a sentirle. Un po’ come dire che sono giamaicano e pratico il bob», ha avuto modo di dire Erik. L’intelligenza non si compra: e per lui, che aveva studiato per fare l’insegnante ma che per via della cecità non trovava lavoro nemmeno come lavapiatti, andare a parlare di motivazione alle grandi aziende è una sorta di rivincita. Come a dire: potete fare grandi cose, con la volontà. Aprite gli occhi, gente, voi che non l’avete ancora fatto. E lui li ha sempre avuti apertissimi, a dispetto dell’apparenza.