In Italia i permessi di ricerca sul petrolio violano la concorrenza

Il Consiglio di Stato rinvia la decisione alla corte di Giustizia dell'Ue: non si rispettano le norme europee. No triv: "Per noi è un riscatto, il referendum di 4 anni fa era su questo"

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piattaforma petrolifera

Le estensioni dei permessi per la ricerca di idrocarburi in Italia non sarebbero compatibili con le norme europee sulla concorrenza. Lo ha deciso il Consiglio di Stato che ha rimesso alla Corte Ue la questione. La vicenda si riferisce ad una serie di autorizzazioni rilasciate dal ministero dello Sviluppo economico e dal ministero dell’Ambiente italiano al gruppo australiano Global Petroleum Limited ad effettuare ricerche in Adriatico. Ma se i giudici europei dovessero accogliere la posizione, rischierebbero di essere annullate anche le autorizzazioni concesse ad altre società sulle quali sono pendenti analoghi ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. E cadrebbero anche le proroghe assicurate alle compagnie che hanno già ottenuto i permessi di ricerca.

La vicenda parte dai ricorsi della Regione Puglia che in precedenza il Tar del Lazio aveva respinto, giudicandoli “infondati” in quanto il Mise, proprio in base alla normativa europea, aveva frammentato in sede di bando i permessi di ricerca per “favorire la concorrenza ed il razionale sfruttamento degli idrocarburi”.

La Regione Puglia sostiene invece che la società abbia presentato quattro diverse domande per effettuare esplorazioni attraverso indagini sismiche in 2D e 3D in Adriatico, ognuna entro un perimetro di 750 chilometri quadrati, per un totale di quasi 3.000 kmq, per aggirare la norma italiana che vieta di effettuare ricerche in aree superiori ai 750 kmq, in contrasto con le norme europee in materia di concorrenza.

Ora, la Corte di Giustizia dell’Unione europea dovrà stabilire se la legislazione italiana sia compatibile con la direttiva europea in materia di concorrenza. Dal momento “che, da un lato individua come ottimale ai fini del rilascio di un permesso di ricerca di idrocarburi un’area di una data estensione, concessa per un periodo di tempo determinato - nella specie un’area di 750 chilometri quadrati per sei anni- e dall’altro lato consente di superare tali limiti con il rilascio di più permessi di ricerca contigui allo stesso soggetto, purché rilasciati all’esito di distinti procedimenti amministrativi”.

Ecco quanto si legge nella decisione del Consiglio di Stato:

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Il consiglio di Stato sui permessi di ricerca sul petrolio

Quella del Consiglio di Stato, dice il costituzionalista Enzo di Salvatore, autore dei quesiti del referendum ‘No Triv’ del 2016, è “una decisione dirompente, giacché fino ad oggi Tar e Consiglio di Stato hanno sempre negato che la questione dei limiti all’estensione dei permessi ponesse un problema di rispetto delle regole europee sulla concorrenza. Ma se la Corte di giustizia dovesse confermare i dubbi del consiglio di Stato si aprirebbe anche una partita sulla durata delle concessioni e, dunque, sulle proroghe e anche sulla ‘vita utile del giacimento’: questo potrebbe voler dire che i dubbi che manifestammo durante la campagna referendaria sarebbero confermati e la norma sulla quale si andò al voto dovrebbe essere abrogata”.

“In attesa che la Corte esprima il verdetto, questa ordinanza del Consiglio di Stato conferma che il referendum del 17 aprile 2016 non era inutile”, commenta Piero Lacorazza, che all’epoca del referendum era presidente del Consiglio regionale della Basilicata per il Pd, rimosso dall’incarico anche per il suo attivismo sulle trivellazioni petrolifere, autore del libro ’Il miglior attacco è la difesa. Costituzione, territorio, petrolio (People, 2019). “Il Consiglio di Stato infatti si esprime proprio sul quesito numero 6, l’unico ammesso al referendum che non raggiunse il quorum: questa decisione è un riscatto. Resta l’interrogativo: come mai Renzi fece la scelta di togliere il limite di tempo alle trivellazioni in mare? E come mai schierò governo e partito sull’astensione?”.