Marco e Teresa guardano verso il mare
A Rimini quel 14 febbraio del 2004 molte cose cambiarono. Quello fu il giorno dell'addio a Marco Pantani
by Gino CerviTeresa ha gli occhi secchi
e guarda verso il mare
per lei figlia di pirati
penso che sia normale…
[Fin dai primi arpeggi di quella canzone, mi sono sempre chiesto chi fosse Teresa. Poi, un giorno d’inverno, la incontrai a Rimini. Seduta al tavolino di un bar senza gelati e senza bandiere, col vento che seccava gli occhi e screpolava le labbra, mi raccontò una storia di pirati e di droghieri, di vento e di vele, di errori, promesse non mantenute e sogni ammanettati. Però adesso non venitemi a dire che non è vero niente, che è impossibile che sia andata davvero così e che questa canzone l'avevano già scritta venticinque anni prima di sedici anni fa].
“Era il giorno di San Valentino del 2004. Rimini, come vedi, è grigia d'inverno. Ma quel 14 febbraio 2004 era ancora più grigia. E il vento, grigio anche lui, tirava forte e alzava la sabbia.
Lui lo incontrai per caso sulla spiaggia, alla fine nel pomeriggio. Era come se si nascondesse, come se si facesse più piccolo dentro a quella giubbetto col cappuccio tirato sulla testa. Stava lì fermo a guardare il mare. Lo avevo riconosciuto. Mi ero fermata. Gli rivolsi la parola e lui mi rispose. Mi parlò come uno che non fosse più abituato a farlo da troppo tempo.
Mi raccontò delle salite e delle discese, sempre più in alto e sempre più in basso. Delle sue fughe. Fughe dal gruppo, fughe dalla vita. Mi disse che era stato accusato dalla Santa Inquisizione: lo avevano messo al rogo, come facevano con le streghe tanti secoli prima. Nessuno più gli credeva. Tutti lo avevano abbandonato. Tradito dai mercanti di sogni che anche grazie a lui si erano arricchiti a dismisura. Tradito e abbandonato anche da quelli che non ti aspetteresti mai, anche da quelli a cui vorresti confessare di avere paura. Sapeva di aver gettato via un amore in cambio del vuoto, di fantasmi e di molesti folletti. Mi disse della fatica che faceva a iniziare le giornate e della sofferenza di non riuscire mai a chiuderle. Una grande pattumiera, ecco cos’erano quei giorni usati, e quelli che sarebbero venuti dopo. Continuò cosi per tre, forse quattro ore. Il tempo di una corsa, tutto d'un fiato: come una salita da fare a tutta, per abbreviare l'agonia.
Mi disse poi che gli sembrava di stare meglio, che gli aveva fatto bene parlare. Che gli aveva fatto bene essere ascoltato. Era come se non sentisse più le manette ai polsi.
Mi chiese come mi chiamavo.
‘Teresa’ dissi.
‘Teresa? Come la figlia del droghiere’.
Mi fece un sorriso. Anche a me parve che adesso stesse meglio.
Poi si girò, si strinse nelle spalle, si tirò su il cappuccio della giacca a vento e andò via.
Che tenerezza vederlo scomparire che era già buio dentro il giardino di quel tristissimo residence, tristissimo come tutti i residence d’inverno”.
…Quando scadrà l'affitto
di questo corpo idiota
allora avrò il mio premio
come una buona nota