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(Foto Fabio Cimaglia/LaPresse)

Sulla prescrizione Renzi ha ragione, ma l'Italia crede ancora in lui?

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Se sul caso specifico la posizione è legittima, è anche vero che gli equilibri di governo degli ultimi sei anni continuano a ruotare intorno all'ex premier. Peccato che la sintonia col paese appaia irrecuperabile

La crisi di governo è chiara: al Senato, Giuseppe Conte e il suo esecutivo non hanno più la maggioranza senza i 17 senatori di Italia Viva. I giallorossi scendono a 152 seggi, cinque in meno di oggi senza contare quelli a vita. Insomma, l’operazione Renzi è (quasi) riuscita: dopo aver favorito la nascita del Conte Bis e pochi giorni dopo aver lasciato il Pd, obbligando Nicola Zingaretti a ingoiare l’alleanza coi grillini, l’ex sindaco di Firenze prova – in maniera singolare quasi nello stesso periodo – a replicare l’operazione del febbraio 2014 con Enrico Letta. Sei anni dopo, tanti ne sono passati, si salta da #enricostaisereno a #giuseppistaisereno.

C’è, però, poco da scherzare. Perché se nel caso specifico – cioè sulla prescrizione e sul lodo Conte Bis – Renzi ha ragione, c’è il sospetto che se non fosse stato questo scoglio, che pure si intravedeva fin da Natale, sarebbe stato altro. L’ex premier sembra volere un nuovo presidente del Consiglio come Roberto Gualtieri, ipotesi che spingerebbe il Pd a un triplo carpiato, un governo istituzionale con un pezzo di centrodestra oppure, com’è probabile, essere cacciato all’opposizione. Ma senza che il governo cada, senza cioè le elezioni di cui al momento non saprebbe cosa fare, col suo 4/5% fisso da mesi. Piuttosto, puntando a logorarlo ancora di più da fuori, qualora l’avvocato pugliese dovesse riuscire a sostituire la ventina scarsa renziana con un gruppetto di cosiddetti responsabili fra gruppo misto e transfughi di Forza Italia. Il quadro ideale, per il senatore di Scandicci.

Questo il quadro dell’attualità politica alla luce degli ultimi sviluppi, che si sostanzieranno probabilmente in una mozione di sfiducia al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nel giro di qualche settimana. Il governo, infatti, infilando la “soluzione” al pastrocchio della prescrizione nel disegno di legge sul processo penale sembra averlo in qualche modo blindato. Sul punto specifico, rimane un’osservazione: se è vero che Italia Viva aveva proposto il blocco della prescrizione dopo il secondo grado di giudizio, e la sponda non è stata percorsa, la squadra di governo giallorossa ha peccato di assoluta ingenuità.

Oltre gli sviluppi di merito, però, c’è una questione di fondo che ha accompagnato la politica italiana negli ultimi cinque anni abbondanti. La questione Renzi. Dal patto del Nazareno con Berlusconi del gennaio 2014 allo sfratto di Letta un mese dopo per lanciare il governo con il Nuovo centrodestra del volatilizzato Angelino Alfano fino al botto del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Passando per un addio alla politica che non è mai avvenuto – e anzi è durato un mezzo inverno – giusto il tempo di ripresentarsi alle primarie del Pd nell’aprile 2017, stravincerle con il 69% dei voti e iniziare un lungo percorso parallelo al governo Gentiloni che avrebbe condotto alla disfatta dei dem alle elezioni politiche del 2018 al 18%.

Insomma, a conti fatti sono oltre cinque anni che l’ex tutto (presidente della provincia di Firenze, sindaco, premier, segretario dem) fa e disfa la vita politica degli italiani. Il suo esecutivo dei “mille giorni” è stato senz’altro il migliore dei cinque che si sono avvicendati dal 2012 a oggi. Al netto della buona scuola o del Jobs Act, lo dicono i numeri positivi per l’economia, dal Pil alla disoccupazione fino all’export e alla bilancia commerciale, passando per l’abolizione della tassa sulla prima casa, l’abbassamento del canone Rai, gli 80 euro, il processo civile telematico, le unioni civili, il divorzio breve, la riforma del terzo settore e la legge contro il caporalato e molti altri provvedimenti. Però gli italiani non gliel’hanno riconosciuto: né il 4 dicembre 2016, votando contro una specie di referendum sulla sua faccia, né nel percorso durante il governo Gentiloni sfociato nella quasi fatale mazzata del 4 marzo 2018. Sulle ragioni, servirebbe un’analisi sociopolitica a parte.

In tutti i casi Renzi si è in effetti dimesso – da premier, da segretario Pd – senza però tenere fede alle sue promesse di lasciare la politica attiva e lasciando però sempre un piede in campo. Scelta legittima, benché contraddittoria. Pretendendo, dopo un’esperienza di governo, di guidare i dem alle elezioni, dal risultato più alto di sempre delle europee 2014 al più deludente di quattro anni dopo.

Insomma, le ha provate tutte, in alcuni casi nel bene e in molti nel male, e ora che si è reincarnato in un partitino in stile prima Repubblica, Italia Viva, pretende di proseguire nello stesso schema. Forse, però, in questa melassa che è stata la politica italiana dell’ultimo quinquennio la sua stagione è definitivamente conclusa, la sintonia col paese irrecuperabile, le manovre nelle aule (talvolta sacrosante) illeggibili dalla stragrande maggioranza dei cittadini. Prenderne atto non sarebbe male. Appoggiare la nascita di un claudicante governo e bombardarlo sette volte alla settimana non sembra il modo migliore per farlo.