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Boom di case all’asta e l’immobile non è più un bene d’investimento in Italia

Le case vendute all'asta aumentano a distanza di anni dall'inizio della crisi economica e il mercato immobiliare italiano non è più oggetto di appetito per gli investimenti familiari.

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Nel 2019, 23.904 immobili sono stati messi all’asta in Italia, una cifra lievitata del 25% rispetto all’anno precedente. E a conferma che la crisi abbia colpito perlopiù la classe media e medio-bassa, abbiamo che il 67% degli immobili all’asta sia partita da un prezzo non superiore ai 100.000 euro, l’88% entro 200.000 euro.

La nuova normativa ha reso più allettanti gli acquisti alle aste, potendo l’offerente presentare un prezzo fino al 25% inferiore a quello di base fissato dal tribunale. E nel caso in cui la prima asta andasse deserta, alla seconda il prezzo di base scenderebbe ulteriormente, consentendo agli interessati di avanzare un’offerta ancora più bassa.

Questo meccanismo sta offrendo l’opportunità di realizzare grossi affari, con vendite per anche molto meno della metà del prezzo di mercato. Alla fine del 2018, le esecuzioni immobiliari accumulate avevano toccato la cifra di 245.000 unità. E’ evidente come la crisi economica di oltre un decennio a questa parte abbia influito sulla capacità delle famiglie di onorare i debiti, perlopiù i mutui accesi proprio per l’acquisto di una prima casa.

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Il mattone come investimento è finito

Aldilà dei casi più drammatici, che il mercato immobiliare non sia più in cima ai desideri di investimento tra le famiglie italiane lo si capisce anche guardando ai dati sui prezzi delle case. Scesi mediamente di oltre un quarto dal 2007, l’Italia resta l’unica realtà europea a non registrare una tendenza rialzista stabile a tutt’oggi, fatta eccezione per le case di nuova costruzione e per qualche grossa città come Milano. Nemmeno i mutui offerti a tassi che rasentano lo zero stanno surriscaldando il mercato, segno che un’epoca sia finita.

Il boom immobiliare in Italia si registrò tra gli inizi degli anni Settanta e la metà degli anni Duemila. Due erano stati i fattori che spingevano le famiglie a comprare casa: la crescita della popolazione e la tutela dei risparmi. In questo lasso di tempo, il numero dei residenti crebbe di circa 4,5 milioni.

Le case esistenti non bastavano e bisognava costruirne di nuove, specie nelle città, dove sempre più persone si spostavano in cerca di occupazione o anche solo per rifarsi una vita lontani dalla campagna in cui erano sino ad allora vissuti. E il fenomeno dell’inflazione a doppia cifra costrinse molti italiani a investire nel mattone per cercare di mantenere il potere di acquisto dei risparmi.

Ma negli ultimi anni, entrambi i suddetti fattori sono venuti meno. La popolazione ha smesso di crescere, anzi ha iniziato clamorosamente e pericolosamente a diminuire, dato che nemmeno il fenomeno dell’immigrazione riesce a compensare la denatalità, esacerbata dalla cosiddetta “fuga dei cervelli” all’estero. Inoltre, non solo non abbiamo più un problema d’inflazione, ma semmai la BCE non sa più cosa inventarsi per centrare l’obiettivo della stabilità dei prezzi. Per non parlare della scure fiscale che si è abbattuta sugli immobili, specie a partire dal 2011, quando venne inasprita l’IMU sulle seconde case e reintrodotta quella sulle prime.

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In crisi anche il modello Airbnb?

Anche chi ha la fortuna di possedere una seconda casa trova difficoltà a locarla a prezzi remunerativi dell’investimento, tranne che in grosse realtà urbane ad alta intensità abitativa. I canoni di locazione scontano un’aliquota minima del 21% con la cedola secca, a cui si aggiunge l’IMU-Tari. E a questi costi vanno sommati quelli per la manutenzione ordinaria e straordinaria. In particolare, le spese di ristrutturazione, come il rifacimento delle facciate, tendono ad incidere in misura crescente negli ultimi anni, dato che la vita media delle case italiane è diventata ormai un po’ vecchiotta.

L’unico fenomeno che sta dando sollievo al mattone è il modello Airbnb: immobili spesso in stato di semi-abbandono, inabitati anche per anni, che vengono ristrutturati e abbelliti per essere messi a disposizione dei turisti e cercare così di sbarcare il lunario, mettendo a frutto il vecchio investimento.

Ma anche qui lo stato riesce a fare danni, perché s’ipotizza una stretta per minimizzare i casi di abuso tra quanti sfrutterebbero i buchi normativi per fare vera attività d’impresa, in concorrenza (sleale) agli alberghi.

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giuseppe.timpone@investireoggi.it