Amitav Ghosh: “Viviamo nell’età dell’ansia: se vogliamo ritrovare la speranza, dobbiamo cercare di guardare al passato”

A Venezia abbiamo incontrato uno dei maggiori scrittori indiani contemporanei, ospite d’onore alla 37esima seminario della Scuola per Librai Umberto e Elisabetta Mauri

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GF
Amitav Ghosh

Strana la vita, per tutti, anche per Amitav Ghosh, uno dei maggiori scrittori indiani contemporanei di lingua inglese che, dopo aver ambientato il suo ultimo libro, L’isola dei fucili (Neri Pozza, trad.ne di Ada Nadotti e Norman Gobetti), in una Venezia profeticamente sommersa dall’acqua alta, scegliendo come protagonista un commerciante di libri rari, viene invitato dove e da chi? Nella città lagunare, ovviamente – “una città che una volta cavalcava con orgoglio le onde come La Serenissima e ora sarebbe meglio chiamarla La Turbatissima” – ospite d’onore al 37esimo Seminario della Scuola Umberto e Elisabetta Mauri che si è svolto in quella suggestiva cornice che è la Fondazione Cini, sull’Isola di San Giorgio. Quattro giorni di incontri e laboratori incentrati sul rapporto tra tradizione e innovazione in una prospettiva fortemente connotata in senso internazionale alla fine dei quali, è intervenuto lui con una lectio dal titolo: “Imparare dal passato: i libri e il loro futuro in un’epoca di catastrofe”. Un tema, quest’ultimo, che lo scrittore ha già affrontato in molti suoi romanzi, in particolar modo ne La Grande Cecità, uscito nel 2016 sempre per Neri Pozza e considerato un classico della letteratura sui cambiamenti climatici.

“La paura – ci spiega, con chiaro riferimento anche alla collegata psicosi collettiva nata dall’espandersi del coronoavirus - è oggi il nostro sentimento dominante e ed è proprio per questo motivo che se vogliamo ritrovare la speranza, dobbiamo cercare di guardare al passato”. Sono molto felice di poter tornare a Venezia dopo esserci stato quarant’anni fa come giurato alla Mostra del Cinema e poi nel 2013 come ospite d’onore all’Università Ca’ Foscari”. “Venezia è anche la patria di Aldo Manuzio, il fondatore delle Edizioni aldine che, dopo Gutenberg, è probabilmente il più importante stampatore ed editore italiano di quegli anni. Tra le sue opere, c’è l’Hypnerotomachia Polyphilii che è uno degli esempi più belli di testi illustrati”.

Per secoli – continua - l’immagine ha continuato ad occupare un posto di tutto rispetto nella stampa e all’inizio del XX secolo l’inclusione di tavole illustrate in un libro era considerata un pregio. È stata la produzione in serie di libri a ribaltare i criteri di giudizio e a metà dello stesso secolo, il trionfo del testo era completo. Si pensi a Dickens, per cui era normale che le immagini fossero incluse in un romanzo, ma non a Joyce o a Hemingway che invece le detestavano.

Stando agli studi compiuti da Gosh, l’arte e la letteratura hanno seguito così delle strade separate e ogni scambio tra di loro ha finito “per essere considerato dannoso”. La tecnologia della stampa – aggiunge - ci ha portato dei vantaggi, ma ha anche rafforzato il “logocentrismo” di una civiltà che già in partenza lo era, facendo sì che per buona parte del XIX e XX secolo, le attività di lettura e visione siano state completamente separate. “Facendo affidamento solo sulla parola, spiega Ghosh, abbiamo finito per estromettere quasi del tutto le immagini. Ci siamo privati di una dimensione dell’immaginazione e della conoscenza che, al contrario, svolgeva invece un ruolo fondamentale nella produzione di Manuzio e molti suoi contemporanei”. Se si sfoglia il libro citato di Manuzio, infatti, quello che colpisce è invece il legame strettissimo tra parole e immagini che si interpretano reciprocamente in un sistema molto più complesso di quello attuale, basato esclusivamente sul testo.

Nel corso del tempo, è accaduto che libri di quel tipo hanno sostituito i testi miniati come standard per l’industria editoriale. I testi che includevano immagini non sono più stati più definiti miniati, ma sono stati descritti – ricorda Ghosh - quasi in modo peggiorativo, come “illustrati”. Nel ventesimo secolo gli scrittori più seri sarebbero inorriditi al pensiero di abbinare delle immagini ai loro testi: le parole dovevano essere isolate, come componenti supreme del pensiero e del significato.

“I tempi oggi sono cambiati”, spiega lo scrittore che tornerà presto nelle librerie con un libro che sarà la traduzione in versi di una leggenda delle Sundarban, la regione delle mangrovie che oggi è stata messa in pericolo dai cambiamenti del clima. “Uno degli effetti più paradossali di cambiamento climatico indotto dall’uomo chiamato spesso ‘Antropocene’, è che ha contemporaneamente intronizzato e rovesciato l’uomo. La nostra consapevolezza del fatto che l’umanità sia diventata un agente geologico è nata come risultato diretto del risvegliarsi di molti altri agenti, dell’atmosfera, dei mari, dei ghiacciai e dei venti, che ora ci colpiscono tutti come per dimostrare che sono più potenti di quanto una volta si immaginava.

Come possiamo rispondere noi a queste sfide, gli chiediamo, visto che siamo legati alla cultura della stampa? Tornare a pensare per immagini, come ho scritto nel mio saggio ‘La Grande Cecità’. Cinema e tv son stati più sensibili ai cambiamenti climatici rispetto alla letteratura proprio perché si occupano di immagini. Il libro di Manunzio, poi, suggerisce la possibilità di tornare a una forma di espressione in cui parole e immagini si illuminano a vicenda. La rivoluzione digitale, come dicevamo, ha reso più facile che mai abbinare parole e immagini, molti media hanno già in larga maniera sostituito la stampa come luogo principale di espressione ed è molto probabile che anche questo processo aumenti negli anni a venire. Sono eccitato dalle possibilità che l’unione di parole e immagini ha aperto agli scrittori, ma ciò che mi auguro è che la lettura torni ad essere quello che è sempre stata, cioè uno strumento formidabile per i rapporti tra le persone. Il libro continua ad avere il suo valore anche se quello stesso valore, oggi come oggi, si è spostato altrove: non risiede più nell’oggetto fisico o nel prodotto, ma si rivela nella rete di relazioni che il libro stesso è in grado di suscitare. Tra le conseguenze, a detta sua, anche il modo in cui si devono concepire le librerie, che non possono più concepirsi come negozi anche se specializzati. “Il modello a cui tendere è quello delle gallerie d’arte, luoghi che le persone frequentano per incontrarsi, confrontarsi ed essere informati su quello che accade in un determinato contesto e nel mondo intero. Siamo in un’età dell’ansia, quindi se ci incontriamo con gli altri, possiamo vincerla e con essa abbattere la solitudine. Le librerie – ci dice prima di salutarci - offrono da questo punto di vista un’esperienza umana e sociale in un mondo disumano e sempre più distopico. Chi ci va, ha bisogno di un consulente, anche perché il futuro distopico è ora, non dimentichiamolo”.