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“Non so se riuscirò a venire”

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«È morta mamma!»

Queste furono le asettiche parole pronunciate dall’altra parte del telefono - dall’altra parte dell’oceano - con un accento inglese ormai radicato in ogni singola espressione. Non si sentivano da quasi due anni, dopo aver litigato per l’ennesima volta per qualcosa di futile, ma in quella futilità c’era un risentimento lungo una vita intera. E ora erano in silenzio, respirando la stessa aria confusa a migliaia di chilometri di distanza, condividendo l’intimità di un silenzio, senza sapere cosa dire.

Non era il momento per piangere, pensò Filippo mentre teneva in mano il cellulare riflettendo sulle tre parole dette dal fratello. Guardava fuori dalla finestra una giornata che stava finendo: le montagne coperte da una leggera coltre di neve bianca e un cielo che stava diventando oscuro, senza anima e senza stelle. Matteo – dalla sua casa in Connecticut – aveva pianto tutta la notte, dopo aver assistito all’ultimo respiro della madre mentre le teneva la mano già fredda. Un soffocato rantolio che si spense dopo un colpo di tosse, l’ultimo di una lunga e complessa vita. Un ammasso di carne senza più vita, con lei morivano dei tormenti e segreti che non sarebbero mai stati svelati. Ora era lì a ripensare alla sera prima, a riflettere sulla sua vita. Fuori dalla finestra c’era la provincia americana.

I cervi arrivavano di notte e quando li illuminava con una torcia si fermavano nella speranza di non essere visti. Qualche volta in giardino arrivavano persino gli orsi in cerca di qualcosa da mangiare, attratti dall’odore di cibo che proveniva dalle case isolate con il fumo del camino che usciva denso e sporcava l’aria con il profumo di legna calda. C’erano uccelli che volavano appena sentivano un rumore diverso dal solito e scoiattoli grigi grandi quasi come gatti. Il suo cane aveva un collare blu che gli dava un impulso elettrico se superava la proprietà, Matteo lo trovava terribile ma era l’unica soluzione per non farlo perdere nel bosco, era l’unica soluzione per non farlo morire, era l’unica opzione per non rimanere solo. Quella mattina a colazione aveva mangiato waffle con sciroppo d’acero e uova, bevendo succo d’arancio contenuto dentro un cartone da un gallone e caffè nero bollente e profumato in un tazza enorme su cui era inciso l’acronimo MAGA (1).

Poi aveva vomitato tutto e si era deciso a chiamare i suoi fratelli. La prima telefonata era stata dolorosa ma emotivamente calda, la seconda era in stallo. Non sapevano cosa dirsi eppure non avevano il coraggio di attaccare. C’era una perversa volontà di perdonarsi a vicenda, entrambi avevano la speranza che l’altro chiedesse scusa per primo. Non ricordavano neppure quale scintilla aveva fatto esplodere tanto silenzio. Al telefono quell’assenza di rumore sembrava essere eterna, il tempo si era dilatato fino a diventare un nemico.

«Quando ci sarà il funerale?» domandò Filippo spezzando l’assordante imbarazzo dei respiri senza parole.

«Domenica!» rispose Matteo che si sentì liberato dalla zavorra dell’imbarazzo di dover rompere il ghiaccio.

La moglie di Filippo avrebbe partorito a breve la loro prima figlia, l’idea di un viaggio in un posto così lontano per il funerale di sua madre lo rendeva nervoso. E poi avrebbe dovuto rivedere i suoi fratelli e affrontare tutta una serie di problemi burocratici da cui si era sempre tenuto lontano, più per noia che per disinteresse.

«Non so se riuscirò a venire» le parole uscirono libere, senza nessun filtro. E quella scusa oscillava pericolosamente tra un problema oggettivo e uno soggettivo.

L’inverno picchiava forte a Casebasse, ma la depressione che il gelo provocava alle persone sembrava non sfiorarlo. Filippo viveva avidamente in una realtà di cui non capiva granché. Tutto il resto della sua vita era sommerso sotto l’incanto della novità: minuti, ore, mesi, la gravidanza e l’essere padre. Una sera portò sua moglie a mangiare alla Vecchia Taverna, un ristorante non lontano da casa, dove si mangiava molto bene ed era pure economico. Non che i soldi gli interessassero più di tanto ma non essendo ricco doveva farci conto comunque, soprattutto quando si avvicinava la fine del mese.

Nel caldo bollente proveniente da un termosifone acceso, al tavolo, Filippo guardava il boccale traboccante di schiuma bianca. Ci avrebbe voluto infilare la faccia dentro, per bere un lungo sorso di felicità. Giulia, sua moglie, aveva una smorfia perennemente sorridente, come se la felicità le scorresse nelle vene. D'altronde aveva una vita dentro e questo la rendeva speciale. Quel ristorante era appena fuori città, a circa tre chilometri da Casebasse, in un’area di campagna, fresca e profumata di neve. C’era un’altalena dall’aspetto tetro e un sentiero di fango tra gli alberi ombrosi lungo il ruscello. Il ruscello era uno di quelli tipici della pianura sotto le montagne: due terzi di terra, rocce e ciottoli e un terzo d’acqua. Era buio quando tornarono alla loro automobile parcheggiata in mezzo alle altre, mano per mano scaldandosi a vicenda. In quel momento Filippo si era sentito davvero felice e quella telefonata sembrava essere l’opposto di quel momento, come se i sentimenti si dovessero annullare a vicenda per creare un vuoto pneumatico, un’assenza di emotività.

«Sei ancora al telefono?»
«Sì».
«Spero che riuscirai a venire».

Filippo non disse nulla, si limitò a guardare la moglie distesa nel letto con l’enorme pancione rivolto verso il soffitto mentre guardava un film divertente, lo capì dalle risate che sentiva arrivare dalla stanza.

«Alberto lo sa già?»

«Sì. L’ho chiamato qualche ora fa».
«Verrà?»
«Ha detto di sì».

Filippo stava ancora pensando a cosa avrebbe dovuto fare: se partire e andare al funerale della madre o chiudere definitivamente con quello che rimaneva della sua famiglia. Quei brandelli che si trascinava indietro da anni ma che non riusciva a dimenticare, non del tutto.

«C’è un albergo in quel buco di culo dove vivi?»
«Puoi stare da me, ormai vivo da solo».
«E Peter?»
«Peter non c’è più».
«È morto pure lui?»
«No, mi ha lasciato».
«Mi spiace».
«A me no, ormai litigavamo sempre. Era diventato quasi comunista».
«Immagino che ti piaccia sempre Trump?»
«Lo adoro».

Anche in questo caso Filippo voleva ribattere (2) ma ricacciò quella risposta nell’enorme ripostiglio delle cose non dette.

«Ti chiamo tra un paio di ore, devo riflettere su cosa fare».
«Sei ancora arrabbiato con me?»
«Ti chiamo tra due ore».

E la chiamata si concluse, sospesa nel nulla.

***

L’involucro della sera stava coprendo la terra e le luci del parcheggio coloravano tutto dolcemente, mentre gli anabbaglianti delle automobili in cerca di un posto libero si muovevano senza sosta come predatori pronti a sferrare l’attacco decisivo.  Nel grosso supermercato poco fuori Torino una donna spingeva il suo carrello, osservando attentamente le offerte sugli scaffali. Si muoveva con lentezza tra le corsie, guardando di tanto in tanto un foglietto con la lista della spesa: pasta, marmellata, detersivo, balsamo per i capelli, birra, biscotti, frutta e verdura. Quando era arrivata alla fine e il carrello era ormai pieno Alberto si è avvicinato con un caldo sorriso emozionato. Quella gioia improvvisa arrivò dopo aver pianto per ore dopo che suo fratello gli aveva detto che loro madre era morta.

«Che bel cane!» aveva esclamato con eccitazione indicando qualcosa sul carrello. Non osava accarezzarlo ma lo guardava come se fosse qualcosa di meraviglioso e unico.

«Non avevo mai visto un cane così tranquillo e buono. Di che razza è?» continuò.

E la donna che faceva la spesa - con un po' di imbarazzo, paura e stupore – gli aveva risposto: «Non è un cane, è una borsa!» e se n’era andata rapidamente.

Eppure mentre quel carrello si allontanava Alberto aveva sentito un latrato furioso provenire da quel carrello e si era spaventato. Da bambino credeva a tutto quello che gli veniva raccontato, pensava che tutto quello che leggeva fosse vero e si fidava ciecamente di tutti i messaggi che la sua torrida e florida immagina­zione gli inviava continuamente. Aveva passato molte notti a guardare il soffitto cercando di districarsi nel labirinto dei suoi pensieri e aveva riempito la sua vita di colori e forme che nessun altro era stato in grado di creare.

Sua madre era l’unica che lo capiva. I fratelli si divertivano a raccontare che il più piccolo di loro quando vedeva una stella troppo luminosa o una luce fioca di un aereo in lontananza pensava che si trattasse di una navicella spaziale. Lo facevano con la perfidia che solo i bambini sanno avere. Alberto era uno di quelli che credeva che tutti quei Babbi Natale nei centri commerciali o nei villaggi costruiti per monetizzare il Natale fossero la dimostrazione dell’esistenza di un Babbo Natale autentico che se ne stava da qualche parte del mondo ad accumulare doni da regalare ai bimbi buoni. Credeva anche a tutto quello che gli avevano raccontato i compagni a scuola. Un bambino una volta gli raccontò, con assoluta sicurezza, che suo padre era in grado di volare e ogni volta che Alberto lo guardava sognava di vederlo raggiungere il cielo solo con un balzo, ma era troppo timido per chiederlo esplicitamente. Quando, in una fredda mattina di dicembre, quell’uomo morì per un infarto mentre spalava la neve dal marciapiede e sua madre gli disse che «Era andato in cielo» Alberto si convinse ancora di più che potesse volare per davvero.

Ora guardava fuori dalla finestra del suo piccolo appartamento le grosse gocce d’acqua e neve che si suicidavano contro il vetro. Le luci a intermittenza di una lampadina rotta nel cortile illuminavano la stanza vuota e buia dove si era rinchiuso per cercare di trovare un po’ di serenità. Si stava preparando per affrontare la morte di sua madre e quel viaggio in un paese lontano. Non aveva voglia di vedere quei parenti che spuntavano come funghi velenosi dopo una notte di pioggia per chiedergli come stava, quando si sarebbe sposato e fargli altre domande fastidiose che lo mettevano in imbarazzo. Avrebbe voluto starsene sul divano tutta la sera a guardare il mondo entrare dalla finestra per poi rimodellarlo nella sua testa. Chiuse gli occhi per un momento e quel momento divenne lunghissimo, racchiuso nell’oscurità delle sue palpebre si sentiva al sicuro e lì poteva vedere quello che voleva. Sentì qualcuno bussare alla porta, la fissò per un momento esterrefatto, poi si alzò per andare a vedere chi fosse e rimase sorpreso quando vide che era sua madre.

«Posso entrare?» domandò.
«Ma sei morta» rispose Alberto rimanendo immobile a fissare quello che stava vedendo.

«E allora? Sono comunque tua madre» rispose seccata. La madre si guardò intorno cercando di farsi un’idea di quel posto che non aveva mai visto. Alberto timidamente cercava di parlare al fantasma (era il fantasma?) di sua madre ma lei si muoveva rapidamente senza fermarsi un attimo come quando vivevano assieme e lei non stava un attimo ferma.

«Nessuno ti farà mai del male, figlio mio. Sono qui per chiederti di far fare pace ai tuoi fratelli».
«Come?»

Lei non rispose. Gli occhi di Alberto guardavano quel corpicino nervoso e riuscivano a farlo nonostante l'oscurità. Lì, davanti a lui, c'era tutto la sua vecchia vita. Più di vent’anni passati a viverci accanto, a stringerla tra le mani e poi lei era tornata a vivere nel paese dove era nata, lontano da lui. Continuò a lungo a sminuzzarla con gli occhi, a gustarne ogni pezzetto come se fosse l'ultimo e lei sparì senza preavviso - senza dire nulla - e Alberto rimase a fissare la porta di casa sperando di sentire bussare ancora.

***

La domenica in cui ci fu il funerale la St. Mary's Church era piena di persone e mormorii, ma appena il prete incominciò a parlare con la voce pacata di un vecchio stanco Alberto chiuse gli occhi e tutti quanti sparirono di colpo, tranne i suoi due fratelli e la bara con loro madre dentro. Rimasero soli dentro quella chiesa vuota e fredda, con una grossa statua di Gesù Cristo che li guardava sofferente.

[1] Make America Great Again, slogan reso popolare da Donald Trump

[2] “Un trumpiano omosessuale era il colmo.”