Il Regno Unito si ritira, anche da se stesso

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Dominic Lipinski - PA Images via Getty Images

Oggi a mezzanotte entra in vigore il Withdrawal Agreement, l’accordo del ritiro. Un accordo che determina le modalitá di interazione tra il Regno Unito e l’Unione Europea. È l’inizio di un periodo di transizione – anticamera del divorzio: separazione in casa. Non avrebbe importanza nel lungo termine, se non fosse che esprime non solo le intenzioni ma anche i principi su cui le due parti cercheranno compromessi nelle negoziazioni future sui termini dell’uscita finale.

È un accordo sofferto che vanta tre anni e mezzo di gestazione, ma godrá di soli dieci mesi di vita. È cosí che ha voluto il nuovo primo ministro, legiferando affinchè un accordo permanente, il divorzio, venga finalizzato o entro dicembre 2020 o mai piú. Mai piú vuol dire un’uscita senza accordi dall’Unione, minaccia che aggrada gli estremisti del partito conservatore, sempre in preda a un provinciale, seppur inespresso, desiderio di shock-and-awe, disaster capitalism, con tutte le opportunitá che offre a chi gode di capitale.

La gestazione di questo accordo segna una transizione pericolante per non dire straziata. Dopo il referendum, il Regno Unito si aspettava che una proposta ben formulata e a regola di legge venisse intavolata dall’Unione, “quel gruppo di burocrati non eletti”, che peró di amministrazione se ne intendono. L’Unione si aspettava iniziativa dal Regno Unito, dato che erano loro ad aver deciso di andarsene. Con una certa accidia di fronte all’obbligo di eseguire il mandato debole del voto referendario, nessuna delle parti sembrava volersi mettere a lavoro.

Ti ritiri tu? Mi ritiro io? Dopo interminabili incontri con l’unione e le pretese, anche avvallate, di eccezionalitá britannica, la prima ministra Theresa May sottopone un accordo potenziale al vaglio del suo governo. Sono giá passati oltre due anni dal referendum, ed è questa la prima occasione che ha il paese di capire cosa vuol dire la “Brexit che vuol dire Brexit”, amato slogan della prima ministra. Ma lo presenta quasi in sotterfugio, distribuendolo la notte prima dell’incontro in cui esige che i suoi ministri lo appoggino, non lasciando loro alcun tempo di leggere il documento di oltre 500 pagine prima di esprimersi. A lei non interessa la loro opinione. Devono fidarsi. Molti, offesi, si dimettono, incluso il ministro di Brexit.

May cambia ministri finchè non trova chi è pronto ad appoggiarlo a scatola chiusa. Ma quando l’accordo viene proposto al parlamento, con solo pochi giorni per ratificarlo, i parlamentari si ribellano e lo bocciano numerose volte. “Firmate senza leggere!” si chiede loro. Ma si sa, è nei termini e condizioni scritti in piccolo che si nascondono le truffe. Theresa May ci prova e ci riprova, in tre voti viene rifiutato. Convoca le elezioni alla ricerca di una maggioranza piú forte. Le perde. Minaccia le dimissioni, si dimette. Ma il successore Boris Johnson è piú simpatico.

Ripropone sostanzialmente lo stesso accordo, mentre minaccia di uscire senza con toni piú decisi. Nel frattempo riprende in mano l’esecutivo, espelle tutti i membri del partito che si rifiutano di dichiararsi a favore di qualsiasi Brexit, sospende il parlamento, e indice un’altra elezione. Il suo livello di credibilitá è talmente basso da intimorire i parlamentari, che lo temono come si teme una scheggia impazzita, in grado di far qualsiasi cosa, agire al di sopra della legge e delle norme, per interessi puramente personali. Il tempo di discutere l’accordo si riduce a una manciata di giorni. Per sventare la catastrofe di un’uscita senza accordi e intimorito dall’imprevedibilitá del nuovo primo ministro, il parlamento accetta la proposta sul tavolo.

L’impressione è che regni il caos, ma in realtá si è riuscito ad aggirare il dibattito parlamentare su una delle decisioni piú importanti nella storia del paese. La discussione sulle procedure della discussione ha avuto la meglio sulla discussione. Ancora si è nel buio su cosa voglia dire Brexit nel lungo termine, dell’accordo si sono discusse solo le “insurance policies”, cioè cosa accadrá se non si negoziano i termini finali del rapporto tra Regno Unito e Unione Europea in vigore dalla fine del periodo di transizione in poi.

Chi ha voluto Brexit non è ancora in grado di spiegare cosa desideri in alternativa, ma nei fatti ha espresso disprezzo per il parlamento, per il dibattito politico, per l’opposizione, interna e esterna, e per il 48% dei cittadini che non voleva uscire dall’Unione Europea.

Da separato in casa, il Regno Unito continuerá a seguire le leggi e regole dell’Unione e contribuire al suo budget fino al termine del 2020. Le domande che segneranno i dieci mesi di transizione saranno le stesse di tre anni e mezzo fa. Ma con la vittoria di Boris Johnson, anche se l’accordo di transizione è sostanzialmente lo stesso, la discussione sul futuro della relazione con l’Unione assumerá toni diversi.

Dal lato dell’economia, l’idea di un allineamento stretto, nonostante sia prescritta nell’accordo di transizione, non sará il principio guida delle negoziazioni che riprenderanno il 3 Marzo. Il mantra sará free trade. Mercato libero, in barba alla sinistra Lexiter che recalcitrava per uscire dall’“istituzione neoliberista”: si lotterá per un neoliberismo su steroidi non viziato da alcuna traccia della vecchia social democrazia postbellica. Fino a che punto si resterá allineati alle regolamentazioni Europee? L’obiettivo di Johnson è un accordo di libero mercato. Giá dall’accordo di transizione ha eliminato ogni riferimento a che si giochi alla pari (la cosiddetta level-playing field).

Come risponderá l’Unione? Ci saranno disposizioni per evitare pratiche di undercutting dei suoi standard? Verranno applicati dazi antidumping contro potenziali prezzi d’assalto? Sará la corte europea ad aggiudicare le dispute che sorgeranno tra il Regno Unito e l’Unione?

Il costo umano invece si è giá materializzato con l’emigrazione, il Brexodus. Una strana versione di fuga di cervelli. Il Regno Unito godeva della piú alta percentuale di migranti laureati in tutta Europa. Ma i flussi si invertono, e le politiche migratorie difficilmente attenueranno i danni causati da un referendum che è stato in fondo un voto contro gli immigrati. In barba ai Lexiter che lamentavano la libertá di movimento delle elite cosmopolite, in questi giorni il governo propone un sistema “a punti”, una corsia preferenziale che accoglie solo chi riceve un salario superiore a trenta mila sterline all’anno, superiore alla media nazionale. Le elite sono piú che benvenute. Chi giá vive in Gran Bretagna da almeno cinque anni invece avrá fino alla fine dell’anno per elemosinare al ministero degli interni un permesso di soggiorno, o andar via.

Ma una questione fondamentale è proprio quella dell’unione del regno. È ironico che il partito Brexit di Farage nella sua ultima comparsa al parlamento europeo abbia svolazzato bandierine del Regno Unito, perchè l’effetto piú notevole del referendum è stato quello di rompere l’unione, non quella europea. Tutti i governi del Regno Unito fuori da Westminster – il Galles, la Scozia, il Nord Irlanda – questo mese hanno votato contro il deal di Johnson. E la Scozia esige un altro referendum sull’autonomia, per restare nell’Unione Europea e uscire dal Regno Unito.

La devoluzione del governo e la creazione di parlamenti decentralizzati degli ultimi venti anni si mostra vana, incapace di invertire la rotta per le popolazioni che hanno votato contro e restano opposte a Brexit, che rifiutano l’identitá maldestra di un’Inghilterra con cui non si identificano. Sará possibile continuare a ignorarli? In ogni caso il Regno Unito, con l’accordo, diventerá semplicemente Gran Bretagna: il confine con l’Unione Europea e l’Irlanda si sposta, de facto seppur non de jure, dal territorio dell’isola al mare d’Irlanda. Almeno questo, un esito logico. Certo è che chi sperava di trovare banane piú curve al supermercato da sabato mattina resterá molto deluso.